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I Centocinquanta anni dell’Italia Unita dalla parte di chi ha vissuto anche il Centenario del 1961

Il 17 marzo 2011 ricorre il 150° anniversario dell’Unità d’Italia.

Centocinquanta anni di storia di un popolo, un tempo frammentato, in un territorio smembrato in tanti staterelli, che seppe tuttavia farsi Nazione sotto l’egida di una sola bandiera, il Tricolore Italiano.

Ho un’età che mi consente di rammentare anche i festeggiamenti del Primo Centenario dell’Unita del 1961.

Avevo esattamente sedici anni e ricordo bene il valore che venne all’epoca riservato all’importante evento nazionale.

Le celebrazioni in sede istituzionale venivano divulgate per radio ed anche per televisione (c’era un solo canale televisivo, e proprio nel 1961 – il 4 novembre per l’esattezza – nasceva anche il 2° Canale).

Non tutti avevano un televisore in casa e quindi le trasmissioni più importanti (Lascia o Raddoppia, il Musichiere, il Festival di Sanremo, il Festival della canzone napoletana, le partite di calcio, ecc.) erano motivo di incontro presso famiglie o parenti che il televisore se lo potevano permettere, oppure si andava al bar od anche presso le sedi di associazioni culturali, sociali, politiche, ecc.

Ma anche a cinema non mancava mai il momento dell’informazione pubblica attraverso la proiezione della “Settimana INCOM”, il cinegiornale di attualità ed informazione proiettato nelle sale cinematografiche prima dell’inizio dello spettacolo, per una durata complessiva di circa 10 minuti.

Nel 1961 il Governo non dichiarò alcuna specifica “festa nazionale”, ma le cerimonie si susseguirono in ogni luogo della nazione, con straordinaria partecipazione.

Ricordo che a scuola la ricorrenza fu molto sentita e tanti furono i momenti di approfondimento in materia.

Ricordo che tutte le scolaresche furono portate a cinema a vedere “Viva l’Italia”, il film di Roberto Rossellini, su committenza della Presidenza del Consiglio, che trattava della spedizione dei Mille del 1860, guidata da Giuseppe Garibaldi, dallo scoglio di Quarto sino all’incontro di Teano.

In particolare ricordo che, per l’occasione del Centenario, venne distribuito ad ogni studente un volumetto, che riportava in copertina una coccarda tricolore, dal titolo “Gli ideali del Risorgimento e dell’Unità”. (1)

Mia moglie conserva ancora la sua copia con gli estremi della consegna da parte del suo Preside per conto del Ministro della Pubblica Istruzione.

E, dunque, cogliendo l’occasione dei Centocinquanta anni dell’Unità d’Italia, le cui celebrazioni avranno inizio fra qualche giorno, riporto qui di seguito l’introduzione del predetto volumetto risalente a cinquanta anni orsono.

« L’età delle riforme.

 

L’intera Europa fu percorsa, nel secolo XVIII, da una profonda crisi di rinnovamento che investì tutti i campi dell’attività umana: letteratura, filosofia, economia, diritto, politica. In nome e per mezzo della ragione l’uomo intese “illuminare” il mondo – che gli sembrò dominato fino allora dalle “tenebre” dell’ignoranza e dalla superstizione – e condannare quanto era comunemente accettato solo per ossequio alla tradizione e al principio d’autorità.

Il movimento illuministico dall’Inghilterra e dalla Francia si diffuse rapidamente anche in Italia dove, a Milano e a Napoli, sorsero centri di cultura e di irradiazione delle nuove idee. L’economia e il diritto, le discipline che avevano una più immediata attinenza con la vita sociale, attirarono maggiormente l’interesse degli illuministi. Il sistema di appalto dei tributi indiretti vigente nel Milanese, i vincoli sulle industrie e sulla libertà di commercio trovarono in Pietro Verri un critico implacabile, mentre la validità delle antiche leggi veniva esplicitamente negata da Cesare Beccaria (Dei delitti e delle pene, 1764) e dal Filangieri (Scienza della legislazione, 1783).

Il processo rinnovatore trovò, nelle mutate condizioni politiche della penisola, le condizioni favorevoli per il suo sviluppo. Nella prima metà del secolo XVIII era terminata, dopo circa un secolo e mezzo, la dominazione spagnola sul Milanese e sul Mezzogiorno (trattati di Utrecht e Rastadt, 1713 – 1714); si era costituito con Carlo III di Borbone un nuovo Stato indipendente a Napoli (1734); la Lombardia era stata data all’Austria; in Toscana, dopo l’estinzione dei Medici, si era iniziato un nuovo ramo dei Borboni con Filippo, fratello di Carlo III; i Savoia, ottenuto il titolo regio e, successivamente, la Sardegna, avevano raggiunto il Ticino, confine naturale con la Lombardia (1748).

A questi burrascosi mutamenti della prima metà del secolo, seguirono per l’Italia, dalla pace di Aquisgrana (1748) allo scoppio della rivoluzione francese (1789), quarant’anni di pace ininterrotta consentiti dall’alleanza tra Francia e Austria, tradizionalmente in lotta per il possesso della pianura padana, ed ora unite per fronteggiare il comune nemico rappresentato dalla Prussia di Federico II.

Questo lungo periodo di pace è detto comunemente “età delle riforme”, perché caratterizzato da una serie di tentativi miranti a rinnovare le strutture giuridiche ed economiche dei principali Stati italiani, soprattutto degli Stati ”nuovi”: la Lombardia di Maria Teresa e di Giuseppe II, il regno di Carlo III, il granducato di Toscana, il ducato di Parma.

Quale rapporto si può stabilire tra il movimento riformatore settecentesco e il movimento nazionale del secolo successivo? Non v’è un netto contrasto fra il dispotismo illuminato caldeggiato da quei riformatori e il liberalismo ottocentesco, tra il cosmopolitismo e il principio di nazionalità?

In realtà quel dispotismo era soltanto strumentale: come spiegava il Filangieri, il potere concentrato nelle mani del sovrano era uno stadio di transizione per abbattere il feudalesimo. Poi sarebbe cessato il “governo degli uomini” e avrebbe avuto inizio “il governo delle leggi” (Verri).

Il cosmopolitismo, inoltre, era alimentato in Italia dal desiderio di riunirsi all’Europa, di entrare a far parte di quella “repubblica delle lettere” che costituiva una comune patria spirituale per l’intellettuale del secolo XVIII. Esso fu l’antecedente storico necessario dello stesso principio di nazionalità che potè svilupparsi solo dopo che quella salutare ventata ebbe sprovincializzato l’Italia.

Di coscienza nazionale si può parlare, in questo periodo, soltanto su di un piano culturale, di una cultura, però, che non è più letteraria o accademica, ma impegnata, cioè intimamente legata alle esigenze del proprio paese.

I passi che seguono mostrano il sorgere di un sentimento nazionale per la prima volta formulato con chiarezza (Carli), l’esigenza di porre un limite all’assolutismo sovrano (Gorani) cui largamente attingerà il liberalismo posteriore, il severo giudizio sulla legislazione del tempo (Beccaria) e l’analisi del più “politico” fra i nostri illuministi (Verri) delle condizioni del Milanese sul finire del secolo».

Note:

Gian Rinaldo Carli: “Della Patria degli Italiani”

Giuseppe Gorani: “Della libertà di parlare e di scrivere riguardo al governo”

Cesare Beccaria: “Dei delitti e delle pene”

Pietro Verri: “Pensieri sullo stato politico del Milanese nel 1790”

(1) Nel primo centenario dell’Unità d’Italia: “Gli ideali del Risorgimento e dell’Unità”, Antologia a cura di Giuseppe Talamo – Collana diretta da A.M. Ghisalberti, Presidente dell’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano – Ente Nazionale Biblioteche Popolari e Scolastiche, Roma 1961.

 


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