Le Foibe imbrattate con scritte vandaliche

Non solo per le vittime dell’Olocausto per mano nazifascista, che commemoriamo nella ricorrenza del “Giorno della Memoria” del 27 gennaio, ma anche per quelle massacrate e gettate nelle cavità carsiche per mano comunista, ricorre domani il loro “Giorno del Ricordo”.
Il 10 febbraio di ogni anno si celebra infatti il “Giorno del Ricordo”, ricorrenza istituita con la legge n. 92 del 30 marzo 2004 per conservare e rinnovare la memoria delle Vittime delle Foibe e dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati di origine italiana all’indomani della seconda guerra mondiale.
La data prescelta del 10 febbraio si riferisce al giorno in cui, nel 1947, furono firmati i trattati di pace di Parigi, che assegnarono alla Jugoslavia l’Istria, il Quarnaro, la città di Zara con la sua provincia e la maggior parte della Venezia Giulia, che in precedenza facevano parte dell’Italia.
Purtroppo, nella giornata di ieri, sabato 8 febbraio 2025, atti vandalici a Trieste hanno infangato la memoria delle vittime e fomentato un clima d’odio. Tre scritte in lingua slava sono comparse alla Foiba di Basovizza dove era in programma una cerimonia, a poche ore dal “Giorno del Ricordo”.
Una ferma condanna si è levata da ogni parte per l’atto di vandalismo che oltre ad oltraggiare la memoria delle vittime delle Foibe, mira a giustificare chi ha brutalmente ucciso uomini, donne e bambini solo perché italiani. Un gesto inaccettabile, che tenta di minare il dialogo tra popoli che vogliono costruire un futuro di pace.
Le tre scritte in slavo tradotte in italiano:
“Trieste è nostra”; “Trieste è un pozzo”; “Morte al fascismo libertà al popolo”; segue anche un numero: “161”.
Per comprendere il significato del numero 161, “è necessario immergersi nel sottobosco dei gruppi antagonisti presenti in Europa. Il numero “161” infatti è usato come codice numerico corrispondente alle parole ‘azione antifascista’. Intendendo per ogni lettera il corrispondente numero rispetto all’ordine dell’alfabeto (A=1, F=6). Tale “acronimo numerico” vien a volte usato in contrapposizione al numero 88, codice utilizzato tra i neonazisti per intendere il saluto Heil Hitler, con H=8 secondo la stessa procedura numerica (161>88). Si tratta di un codice non ancora molto diffuso in Italia rispetto ad altre zone d’Europa, dove molto spesso viene utilizzato assieme a un altro acronimo numerico: il 1312, cifra che sta a significare All Cops Are Bastards (A=1, C=3, A=1 e B=2) [Tutti i poliziotti sono bastardi]” (Cfr. Triestenews https://www.triesteallnews.it/2025/02/cosa-significa-161-la-firma-trovata-in-calce-alle-scritte-sulla-foiba-di-basovizza/ ).
Ieri 8 febbraio 2025 il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, accolto a Villa Pilpolze dalla Presidente della Repubblica di Slovenia Natasa Pirc Musa, ha colto un’occasione molto speciale (antivigilia del “Giorno del Ricordo” a Nova Gorica) per mandare un messaggio all’Europa: “In un mondo caratterizzato da crescenti tensioni e conflitti, dall’abbandono della cooperazione come elemento fondante della vita internazionale, Slovenia e Italia hanno saputo dimostrare che è possibile scegliere la via della cooperazione. Nella tragedia della Seconda guerra mondiale, un sopravvissuto ad Auschwitz, Roman Kent, ha osservato: ‘Non vogliamo che il nostro passato sia il futuro dei nostri figli’. Con questo spirito abbiamo affrontato le pagine del Dopoguerra, per scriverne una nuova e nulla può far tornare indietro la storia che abbiamo scritto e scriviamo insieme”.
Nova Gorica – Gorizia: Capitale della Cultura Europea 2025; un esempio di cooperazione.
“La città slovena (Nova Gorica) ha voluto lanciare con la gemella Gorizia una sfida: proporsi come esperienza di cultura attraverso la frontiera. Se la cultura, per definizione, non conosce confini, essa nasce pur sempre come espressione di una comunità ma aperta alla conoscenza, alla ricerca comune, ai reciproci arricchimenti“. Così il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel suo intervento all’inaugurazione di Nova Gorica-Gorizia.

Scritte vandaliche
Foto di repertorio da Internet
Per una più approfondita visione del fenomeno delle foibe, riporto qui di seguito un mio articolo scritto e pubblicato il 10 febbraio 2019 sul Sito/Blog
https://www.paginedipoggio.com/?p=4843
10 febbraio, il “Giorno del Ricordo” delle vittime delle foibe
In occasione dell’anniversario del Giorno del Ricordo di quest’anno, il Capo dello Stato Sergio Mattarella ha ricordato che, mentre il mondo si avviava al “graduale ritorno alla libertà e alla democrazia, un destino di ulteriore sofferenza attendeva gli italiani” nelle zone occupate dalle truppe jugoslave: “Non si trattò di una ritorsione. Non erano fascisti in fuga, erano semplicemente italiani”. E poi ha parlato dell’Unione Europea: “Nacque per dire mai più fanatismi”.
Il Giorno del Ricordo è una solennità civile nazionale italiana, istituita con la legge 30 marzo 2004 n. 92, che viene celebrata il 10 febbraio di ogni anno con l’intento di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e dell’esodo durante la Seconda guerra mondiale e nell’immediato dopoguerra (1943-1945), con particolare riguardo alle persone soppresse e infoibate in Istria, a Fiume, in Dalmazia o nelle province dell’attuale confine orientale, dall’8 settembre 1943 (data dell’annuncio dell’entrata in vigore dell’armistizio di Cassibile), al 10 febbraio 1947 (giorno della firma dei trattati di pace). La data prescelta è il giorno in cui, nel 1947, furono firmati i trattati di pace di Parigi, che assegnavano alla Jugoslavia, l’Istria, il Quarnaro e la maggior parte della Venezia Giulia, in precedenza facenti parte dell’Italia.
Le foibe (e da esse infoibare) sono delle profonde cavità naturali carsiche nelle quali furono gettati molti dei corpi delle vittime; un termine proveniente dal dialetto giuliano e che trova origine nel latino fovea, ovvero fossa o cava.
I massacri delle foibe sono stati degli eccidi ai danni della popolazione della Venezia Giulia e della Dalmazia, avvenuti da parte dei partigiani jugoslavi e dell’OZNA (letteralmente “Dipartimento per la protezione del popolo” dei servizi segreti militari jugoslavi).
Al massacro delle foibe seguì l’esodo giuliano dalmata, ovvero l’emigrazione forzata della maggioranza dei cittadini di etnia e di lingua italiana dalla Venezia Giulia e dalla Dalmazia, territori del Regno d’Italia prima occupati dall’Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia del maresciallo Josip Broz Tito e successivamente annessi dalla Jugoslavia. Si stima che i giuliani, i fiumani e i dalmati italiani che emigrarono dalle loro terre di origine ammontino a un numero compreso tra le 250.000 e le 350.000 persone.
Per estensione i termini “foibe” e il neologismo “infoibare” sono diventati sinonimi di uccisioni che in realtà furono in massima parte perpetrate in modo diverso: la maggioranza delle vittime morì nei campi di prigionia jugoslavi o durante la deportazione verso di essi. Si stima che le vittime in Venezia Giulia e nella Dalmazia siano state circa 11.000, comprese le salme recuperate e quelle stimate, più i morti nei campi di concentramento jugoslavi.
Io e mia moglie abbiamo avuto modo di visitare la foiba di Basovizza in occasione di alcuni nostri soggiorni a Trieste e dintorni; si tratta di un inghiottitoio che si trova nella zona nord-est dell’altopiano del Carso a 377 metri di altitudine.
Nel periodo dell’occupazione jugoslava di Trieste in quella foiba fu gettato dai partigiani jugoslavi un numero imprecisato di persone e, a ricordo di tutte le vittime degli eccidi, sul luogo è stato edificato un monumento. Il presidente della Repubblica Italiana Oscar Luigi Scalfaro, nel 1992, ha dichiarato monumento nazionale il pozzo che, in origine, era un pozzo minerario: esso divenne però nel maggio del 1945 un luogo di esecuzioni sommarie per prigionieri, militari, poliziotti e civili, da parte dei partigiani comunisti di Tito, dapprima destinati ai campi d’internamento allestiti in Slovenia e successivamente giustiziati a Basovizza.
Il ritorno (o riunificazione) di Trieste all’Italia avvenne in seguito agli accordi sottoscritti il 5 ottobre 1954 fra i governi d’Italia, del Regno Unito, degli Stati Uniti d’America e della Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia con il Memorandum di Londra, concernente lo status del Territorio Libero di Trieste; in particolare si stabiliva il passaggio di amministrazione della Zona A dall’amministrazione militare alleata all’amministrazione civile italiana e quindi passavano all’Italia i seguenti comuni della zona A: Duino, Aurisina, Sgonico, Monrupino, Trieste, Muggia, San Dorlingo della Valle.
Nella zona A erano presenti 5.000 soldati americani della TRUST (Trieste United States Troops) e 5.000 soldati britannici della BETFOR (British Element Trieste FORce). La presa di possesso della zona A avvenne il 26 ottobre 1954 e gli alleati si ritirarono tra il 25 e il 27 ottobre 1954.
Il Friuli Venezia Giulia è stata una delle zone più militarizzate d’Europa, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale alla caduta del Muro di Berlino: si calcola che circa tre milioni di persone abbiano svolto il servizio militare in quella regione e che ben 428 fossero i siti militari dislocati su 102 chilometri quadrati di territorio. Oggigiorno molte di quelle caserme sono in dismissione, dopo oltre mezzo secolo di presenza militare che ha segnato la vita di tanti italiani, anche civili, che hanno vissuto gomito a gomito con l’Esercito, come ristoratori delle trattorie nei pressi delle caserme, i fornai che ricordano come le caserme fossero a volte il pilastro dell’economia di un intero paese, i tabaccai, i postini a portar quintali di lettere. Ma anche la formazione di giovani coppie di innamorati (lui militare meridionale, lei friulana).
Anch’io conservo dei ricordi della mia permanenza a Trieste per servire la patria, come veniva denominato un tempo il servizio militare di leva obbligatorio e, in particolare, ricordo le esercitazioni militari e di tiro che svolgevamo sulle alture di Monrupino, nella zona montuosa di confine con la ex Jugoslavia. Ero dislocato alla Caserma di Polizia “Duca D’Aosta” in via Damiano Chiesa di Trieste, in zona San Giovanni.
E, da quello che è dato sapere, la Seconda guerra mondiale è passata anche dalla Caserma Duca d’Aosta, una ex caserma dell’Esercito divenuta successivamente Scuola di Polizia, lasciando una scia di sangue finita nel dimenticatoio. Ma, dall’ottobre 2012, l’area (di oltre 40.000 mq.) è stata decretata bene culturale particolarmente importante, ”esemplare testimone di un lungo periodo della storia particolare della nostra città e specialmente di momenti tragicamente drammatici e del dolore di tanti uomini e donne che vi sono transitati o vi hanno perso la vita in modo atroce”, condizione che rende molto difficile, se non addirittura impossibile, dismissioni o altre forme di speculazione edilizia.
Alla fine del XVII secolo, il sito risultava di proprietà della famiglia patrizia dei de Bonomo, mentre all’inizio del Novecento vi trovarono sviluppo diverse attività industriali come il pastificio Fratelli Girardelli Società Anonima in Trieste, la Fonderia Osvaldella e il colorificio Astra Società per Industria e Commercio a.g.l. con annessa fabbrica del ghiaccio.
Verso la fine del 1928 lo Stato acquistò l’intera area e dopo un intervento edilizio importante inaugurò la caserma intitolandola a Emanuele Filiberto Duca d’Aosta, quale sede del glorioso 34° Reggimento Artiglieria da Campagna, di cui rimane ancora oggi il prezioso monumento commemorativo che si trova ai bordi del piazzale della caserma.
Nel 1931 il comando venne assunto dal Principe Amedeo di Savoia Duca delle Puglie, figlio di Emanuele Filiberto di Savoia.
A maggio del 1939 il Reggimento assunse la denominazione di 23° Reggimento Artiglieria Sassari e tornò ad essere dal 1940 ancora 34° Reggimento Artiglieria Sassari.
L’8 settembre vide il dissolvimento di tutti gli assetti dello Stato italiano compreso il suo esercito e il 34° ”Sassari”, posto a difesa di Roma, venne sciolto e la caserma immediatamente occupata dalle SS tedesche, che la trasformano in un centro di arruolamento al Lavoro coatto della Todt (1).
Con la resa delle truppe tedesche, il 1° maggio del 1945, l’Armata Jugoslava occupò Trieste e il sito venne subito utilizzato dall’OZNA, la polizia segreta jugoslava, come luogo di prima detenzione, di interrogatorio e di tortura.
Molti civili e militari arrestati vennero portati alla Duca d’Aosta; tanti non fecero più ritorno alle loro case per essere stati avviati ai campi di concentramento prontamente realizzati in territorio sloveno o per essere destinati, attraverso sommarie esecuzioni, alle foibe.
Nel giro di poco tempo si alternarono dunque nazisti prima e armata titina dopo. E dentro sempre triestini vittime ora di uno e ora dell’altro.
Con l’arrivo delle truppe anglo americane la Caserma Duca d’Aosta venne occupata dal 351° Infantry Regiment con i Blu Devils, gli eroici diavoli blu americani e dal Genio Inglese con il 55° e il 66° Royal Engineers.
Quando il 25 ottobre del 1954 le truppe anglo-americane lasciarono Trieste, riconsegnandola definitivamente all’Italia, gli edifici della Duca d’Aosta vennero destinati al Corpo Guardie di Pubblica Sicurezza.
L’intera struttura dal 10 aprile del 1962, con decreto dell’allora Ministro dell’Interno Paolo Emilio Taviani, si trasformò definitivamente in Scuola Allievi Guardie di Pubblica Sicurezza, prezioso centro formativo nazionale tutt’ora utilizzata per la formazione degli Allievi Agenti della Polizia di Stato.
Nota (1)
Fritz Todt quale Ministro degli armamenti ed approvvigionamenti dell’esercito nazista concepì una organizzazione – chiamata appunto Todt – di lavoro coatto impiegando prigionieri di guerra al fine di realizzare strade e ponti di interesse militare, ma anche opere squisitamente militari. Un esempio di lavoro eseguito fu la famosa linea gotica, ma tantissimo questa impresa fece in Germania e nei paesi occupati impiegando una manovalanza a costo zero che arrivò fino al milione e mezzo di uomini. A Trieste la Todt aveva sede nel palazzo del Museo del Risorgimento che fu del tutto svuotato per fare posto a questa organizzazione tra i cui lavori troviamo anche parte della rete di gallerie nella zona del Tribunale e Scorcola nota come Kleine Berlin
Le notizie sulla caserma Duca D’Aosta, sopra riportate, sono desunte dalle ricerche storiche di Federica Verin, dipendente dell’Istituto di Polizia di Trieste, riportate in “La mia Trieste” https://www.lamiatrieste.com/2016/07/20/scuola-di-polizia-san-giovanni/
Il giorno della Memoria, ottant’anni dopo

Il Giorno della Memoria è una ricorrenza internazionale, celebrata il 27 gennaio di ogni anno come giornata per commemorare le vittime dell’Olocausto. È stato così designato dalla risoluzione 60/7 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 1° novembre 2005 durante la 42^ riunione plenaria. La risoluzione fu preceduta da una sessione speciale tenuta il 24 gennaio 2005 durante la quale l’Assemblea generale delle Nazioni Unite celebrò il sessantesimo anniversario della liberazione dei campi di concentramento nazisti e la fine della Shoah.
Si è stabilito di celebrare il Giorno della Memoria ogni 27 gennaio perché in quel giorno del 1945 (ottant’anni fa) le truppe dell’Armata Rossa, impegnate nell’operazione Vistola-Oder in direzione della Germania, liberarono il campo di concentramento di Auschwitz.
I Lager nazisti, i campi di concentramento e le deportazioni rappresentano quanto di più deleterio – e funesto al tempo stesso – possa l’uomo aver perpetrato nei riguardi del genere umano al quale egli stesso appartiene.
E il giorno della Memoria, che ricorre nella giornata odierna, deve farci riflettere sempre e comunque, ogni volta che si accenna ad un qualche conflitto, soprattutto in questo particolare e delicato momento storico in cui due grandi focolai bellici (quello russo-ucraino da un lato e quello israelo-palestinese dall’altro) sono all’attenzione di tutto il mondo, per gli effetti e le conseguenze che ne potrebbero derivare, se non mitigati dalla logica ed il buon senso, non solo da parte dei soggetti in campo, ma di tutti gli uomini di buona volontà.
Ho personalmente avuto l’opportunità di visitare nella primavera del 2007 lo Yad Vashem (1), il Museo dell’Olocausto di Gerusalemme, durante il mio viaggio in Terra Santa con mia moglie.
Una visita che meritava proprio quel pomeriggio di riflessione.
Tante foto, documenti, lettere, indumenti di ogni tipo, ricostruzione fedele di campi di concentramento e di tradotte (treni) militari, libri, oggetti personali dei deportati, ecc.
Lo Yad Vashem è il memoriale dei sei milioni di ebrei deportati e uccisi dai nazisti.
Una cosa davvero toccante, che ti lascia dentro un senso di pietà e di impotenza al tempo stesso, ma che ti scatena anche sentimenti di rabbia per tutto quanto è potuto accadere.
Ogni anno allo Yad Vashem viene celebrata una cerimonia ufficiale nella quale lo Stato di Israele e il popolo ebraico si uniscono nella memoria delle vittime dell’Olocausto.
Un luogo sacro da visitare in silenzio e senza alcuna fretta per prendere consapevolezza di un dramma di immane portata.
Anche Poggio Imperiale annovera tra i suoi caduti nel Secondo Conflitto Mondiale i concittadini Ernesto Braccia, Nicola Verzino e Giuseppe Zangardi, morti nei LAGER nazisti e, più precisamente, nei campi di concentramento e di prigionia di Dachau, Gross Lubars e Kaiserslauter, in Germania (2).
“Nei campi di concentramento nazisti sono stati commessi crimini di incredibile efferatezza. Tali crimini non furono commessi solo contro il popolo ebraico e gli altri popoli e categorie oppressi, ma contro tutta l’umanità, segnando una sorta di punto di non ritorno nella Storia. L’umanità esige che ciò che è avvenuto non accada più, in nessun luogo e in nessun tempo. E’ di enorme importanza che le nuove e future generazioni facciano proprio questo insegnamento nel modo più vivo e partecipato possibile, stimolando il dibattito, le domande, i “perché” indispensabili per la comprensione di quei tragici eventi. Favorendo noi una riflessione vivace nei ragazzi, renderemo forse il servizio migliore a questo Giorno che, per essere vissuto nel modo più autentico, necessita di un pensiero non statico, non nozionistico. Occorre fornire alle nuove generazione gli strumenti, anche empirici, per riflettere su cosa l’umanità è stata in grado di fare, perché non accada mai più. Questo, forse, è il senso più vero del Giorno della Memoria, ed è un bene prezioso per tutti” (3).

Foto di repertorio da Internet
(1) Il 21 ottobre 2008 ho pubblicato su questo mio stesso Sito https://www.paginedipoggio.com/?p=3131 un articolo dal titolo: “Yad Vashem il Museo dell’Olocausto: la didascalia contestata”.
(2) Il 7 febbraio 2010 ho pubblicato su questo mio stesso Sito https://www.paginedipoggio.com/?p=3088 l’articolo “Tre le vittime di Poggio Imperiale nei LAGER nazisti!”.
(3) Da “Il senso del Giorno della Memoria” di Renzo Gattegna, Presidente Unione Comunità Ebraiche Italiane, Sito internet: htpp://www.ucei.it/giornodella memoria.
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Giovanni Saitto, ancora due libri inediti sulla Famiglia Imperiale a Poggio Imperiale e in Capitanata.

Quando anche una buona lettura
può offrire elementi di distensione e di speranza
Il nuovo anno, il duemilaventicinque, si apre sotto gli auspici della ‘speranza’, in primis perché questo è il messaggio che ci arriva da Papa Francesco per l’ultimo Giubileo ‘ordinario’ della storia corrente, appena aperto, ed in secondo luogo, perché essa (la speranza), sebbene la più piccola delle tre virtù teologali (fede, speranza e carità), è ritenuta la più forte.
Papa Francesco è tornato più volte in questo periodo a parlare di speranza, ‘spronandoci a guardare con occhi nuovi la nostra esistenza, soprattutto ora che è sottoposta a dura prova, e guardarla attraverso gli occhi di Gesù, “l’autore della speranza”, affinché ci aiuti a superare questi giorni difficili, nella certezza che il buio si trasformi in luce’.
E bisogna essere davvero forti per non temere che qualcosa di veramente grave possa accadere nel Mondo, a fronte dei focolai di guerra in atto, in massima parte sul fronte ucraino e su quello mediorientale, oltre all’infinità di tensioni, più o meno preoccupanti, diffuse a macchia di leopardo, un po’ dovunque.
Anche il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel suo discorso di fine anno alla Nazione, ha parlato di ‘speranza’, coniugandola con la ‘pace’ e il ‘rispetto’.
Ha dell’assurdo quello che sta succedendo in giro, nonostante le buone intenzioni sbandierate ai quattro venti, da più parti, già a partire dalla fine del Secondo Conflitto Mondiale, ottant’anni fa.
E’ come se avessimo dimenticato tutto o, addirittura, come se nulla fosse successo, nonostante pagine e pagine di storia, filmati, documentari, convegni, dibattiti e quant’altro, stiano lì a dimostrare che la guerra è sempre e comunque una sconfitta per l’umanità, anche in caso di vittoria.
Ma non bisogna mai arrendersi e continuare caparbiamente a credere che per tutto c’è sempre una soluzione, un rimedio: l’essenziale è crederci.
E sono tante, fortunatamente, le persone che ci credono e si impegnano, anche senza bisogno di clamore, a scavare, approfondire, ricercare, collegare fatti e circostanze, per mettere in luce situazioni storiche del passato, al fine di conoscere, comprendere le motivazioni e le strategie che hanno indotto, di volta in volta, i popoli ad operare le loro scelte, soprattutto per portarle a conoscenza dei più, ritenendo che proprio quella della conoscenza, sia la strada migliore per avere una visione più aperta per affrontare le situazioni presenti e future.
E, questo, anche nel piccolo di una comunità, ove per una serie di prevedibili o imprevedibili circostanze, la storia si intreccia con quella di altre realtà, consentendo così di allargare la visuale di osservazione su di una dimensione più complessa ed articolata.
E, qui, con molto piacere, voglio volgere lo sguardo al mio paesello di nascita, Poggio Imperiale, un Borgo dell’Alto Tavoliere, in terra di Capitanata, sorto verso la metà del 1700 ad opera del Principe Placido Imperiale, ove confluirono persone provenienti da varie località, compresa una Colonia Albanese, spinte anche delle allettanti proposte offerte dal Principe medesimo.
E l’amico Gianni, Giovanni Saitto, cultore della Storia legata alla Capitanata, continua la sua opera di ricercatore e divulgatore di storia e tradizioni locali, aggiungendo alla sua Bibliografia due nuove pubblicazioni dedicate alla Famiglia genovese degli Imperiale, possessori dei feudi pugliesi di San Paolo, Lesina e Poggio Imperiale:

- Giovanni Saitto, “Sub Umbra Alarum Tuarum”. La Famiglia Imperiale di Genova, SUSIL edizioni.
‘Sotto l’ombra delle tue ali’, è un versetto biblico del Salmo 56 che campeggia nel blasone della famiglia genovese degli Imperiale.
Un libro che, per la sua valenza dinastico – genealogica, suscita vivo interesse e curiosità nel lettore avvezzo a questo tipo di filone storico.

- Giovanni Saitto, “Genovesi del ‘700 in Capitanata”. La Famiglia Imperiale, Feudataria di San Paolo, Lesina e Poggio Imperiale, SUSIL edizioni.
Un libro che, prendendo le mosse dal ‘Settecento in Capitanata’, regala al lettore un escursus attento e particolareggiato sui Feudi di San Paolo e di Lesina (nella cui giurisdizione nacque poi Tarranòve, il futuro Borgo di Poggio Imperiale), soffermandosi sulla loro acquisizione, amministrazione e gestione da parte del Principe Placido Imperiale, per passare successivamente alla trattazione del tema della Riforma Agraria, con i suoi aspetti sociali, demografici ed economici, fino all’apprezzo dei beni ereditari di Giulio II Imperiale.
L’autore, mi ha confidenzialmente informato che ‘bolle in pentola’ un altro lavoro, frutto di laboriose ricerche, alcune delle quali appena terminate presso l’Archivio di Napoli, altre da approfondire presso l’Archivio di Venezia, che riguarda uno studio sulla Colonia Albanese di Poggio Imperiale, già peraltro oggetto di analisi dell’autore stesso in altre circostanze.
Buona lettura dunque agli appassionati di questo genere letterario e a tutti coloro che animati dalla ‘speranza’, confidano in un clima di distensione, pace e rispetto reciproco.
Siamo nel 2025

Felice Anno Nuovo
Avviso
Con il nuovo Anno riprendono le pubblicazioni.
Buona lettura!
A zèlle e u zellùse a Tarranòve

Ogni tanto mi affiorano alla mente ricordi di un tempo che fu, trascorso da ragazzo nel mio paesello di nascita, nell’Alto Tavoliere della Puglia, come dei flashback che si inseriscono nella mia quotidianità per lasciar spazio alla rievocazione di avvenimenti del passato.
E ricordo che a Tarranòve (Poggio Imperiale, in terra di Capitanata), in situazioni ove si verificavano circostanze che presupponevano condizioni di competitività, come ad esempio nel gioco delle carte, ma anche in situazioni analoghe, si poneva soventemente in risalto qualche individuo (quasi una macchietta) che, in maniera loquace, prolissa e ciarliera, attribuiva al compagno di gioco (a coppie) l’incompetenza e lo scarso concentramento che pregiudicavano i risultati della partita oppure, all’avversario, il fatto di avere una fortuna smisurata e di vincere pur non sapendo giocare.
Si diceva, in gergo, che il tizio o il caio erano “zellùse” e l’atteggiamento posto in essere veniva denominato “a zèlle”,
Insomma “u zellùse” voleva vincere sempre, a tutti i costi, e non era capace di accettare sconfitte; in ogni circostanza la voleva vinta lui e pretendeva di avere sempre ragione su tutti e sopra ogni cosa. Si sentiva apparentemente superiore agli altri, ma era solitamente un soggetto mediocre ed irascibile che serbava rancore, odio e invidia verso il prossimo, senza neanche sforzarsi di nascondere pubblicamente le sue sciocche peculiarità: aveva la capacità di trasformare le competizioni in rivalità ed era particolarmente abile nell’approfittare di situazioni delicate per suscitare litigi altrui, mettendo i malcapitati gli uni contro gli altri.
Molto più in generale, “a zèlle” indicava quell’improvviso pretesto con cui una persona, nutrendo una sorta di antipatia o astio personali verso un altro, e non avendo motivi validi per aprire un contenzioso giustificabile e razionale, al fine di giustificare la dichiarazione di rivalità, si impuntava su qualche cavillo che cavalcava a dismisura in modo irragionevole.
Quel cavillo o pretesto, appunto, era “a zèlle” e, naturalmente “u zellùse” era il soggetto che con disinvoltura la praticava.
“U zellùse” manifestava la sua contrarietà in tutti i campi, cominciando dal nutrimento; infatti non gli andava bene mai niente di quello che era stato preparato per pranzo o per cena e anche per colazione o merenda.
Così dicasi per l’abbigliamento, vestiti, camicie, calze, scarpe; l’arredo della casa, i viaggi, le vacanze, l’ombrellone, gli spettacoli e quant’altro potesse venirgli mai proposto.
In lingua italiana potrebbe definirsi il “bastian contrario” della situazione, espressione idiomatica che indica colui che assume per partito preso le opinioni e gli atteggiamenti contrari a quelli della maggioranza.
E col tempo i due termini sono entrati nel linguaggio corrente dei Terranovesi, affievolendone il significato in maniera scherzosa e con toni divertenti soprattutto con i bambini capricciosi o in genere nelle contrattazioni.
Proviamo ora a vedere, per quanto possibile, la sua derivazione etimologica.
Nell’area del Cilento (1), “zella” indica più specificatamente la lite, l’ira, e “zelluso” è dunque l’attaccabrighe, la persona facile all’ira, pronto a “spaccare il capello in quattro” nella misurazione del torto che assume di aver subito, facile alla reazione e permaloso.
E, sulla loro origine (2), l’ipotesi più accreditata è quella di una derivazione dal greco “zelos” che tra i molteplici significati contempla anche quello di ira, rivalità, animosità; e da “zelos” viene anche la parola “gelosia”.
Nella storia di Tarranòve si rinviene una nutrita mescolanza di idiomi provenienti da varie località della Campania, della Puglia centrale e meridionale, della Basilicata (un tempo denominata Lucania) e della Calabria, nonché del Molise e dell’Abruzzo, ragione per cui i termini “zèlle” e “zellùse” potrebbero essere stati importati proprio dal Cilento, peraltro maggiormente influenzato dalla cultura greca, con il trasferimento in paese di famiglie provenienti da quei luoghi, che vennero a popolare questo nuovo insediamento (terra nuova: Tarranòve) in Capitanata voluto dal Principe Placido Imperiale, verso la metà del 1700.
Come ultima notazione, si evidenzia anche il fatto che a Tarranòve il termine “zèlle” – ma solo al plurale (i zèlle) – era sinonimo di “debiti”, ed è così che si diceva ad esempio: “Quillullà sta chine chine de zèlle” (quello là è pieno pieno di debiti) …ma questa è un’altra storia!
(1) Il Cilento è un’area territoriale della provincia di Salerno, nella Campania meridionale. Unitamente al Vallo di Diano, in epoca romana il Cilento era parte della Lucania; a decorrere dal medioevo appartenne al Principato Citeriore, definito anche “Lucania occidentale” ma facente capo a Salerno.
(2)L’interessante materiale di ricerca, riportato nell’articolo, è stato reperito sul sito internet Cilento Reporter l’Altra Informazione https://cilentoreporter.itAccademia della Vrenna al quale vanno i ringraziamenti di paginedipoggio.

La Russia ha invaso l’Ucraina: l’atrocità della guerra e la sofferenza umana che ne consegue

Dopo ben settantasette anni di tregua e di apparente pacifica convivenza tra i popoli europei, eccoci catapultati all’indietro nel tempo in un conflitto bellico e sull’orlo di sfociare nella Terza Guerra Mondiale.
La Russia ha militarmente invaso l’Ucraina, uno Stato sovrano con un Presidente ed un Parlamento democraticamente eletti dal popolo.
Carri armati, artiglieria pesante, bombardamenti aerei, palazzi sventrati, morti e feriti; e la coraggiosa resistenza degli ucraini.
Donne e bambini sfollati che scappano inermi verso il confine con la Polonia e la Romania, e cordoni umanitari per l’accoglienza da parte dei Paesi dell’Unione Europea che si prodigano in uno sforzo di grande solidarietà. Ed echeggiano, ancora una volta, parole come esodo, genocidio, olocausto.
Le immagini che passano attraverso gli schermi televisivi ci mostrano in tempo reale l’atrocità della guerra in atto e la sofferenza umana che ne consegue, lasciandoci profondamente sconvolti dallo sgomento e dall’orrore.
Solo nei film e nei vecchi documentari della Seconda Guerra Mondiale avevamo visto cose del genere.
Ed ora, strabiliati ed inorriditi, siamo tutti a domandarci del perché di tanta violenza e crudeltà nel Terzo Millennio.
Vladimir Putin, l’attuale Presidente della Federazione Russa, sembrerebbe – secondo alcuni osservatori internazionali – ossessionato dal confronto con il passato ed in questo senso vorrebbe riscrivere la Storia deviandone il corso, cancellando di fatto la caduta del Muro di Berlino, la fine del Comunismo e la debacle dell’Unione Sovietica: eventi che negli anni novanta del secolo scorso hanno segnato non solo la Storia, ma anche la Geografia politica di quella parte del Mondo.
Inoltre, la Russia di Putin sarebbe convinta (e pare anche la Cina di Xi Jinping) che l’Occidente sia in una fase di decadenza irreversibile e che sia necessario ridisegnare gli equilibri internazionali. Tuttavia, in questo particolare frangente Putin ha ottenuto il risultato opposto a quello sperato: pensava di dividerci e invece ha risvegliato davvero l’unità dell’Occidente, il nostro amor proprio e la volontà di difendere la democrazia. La coesione fra Europa e Stati Uniti ha sorpreso tutti, con la netta presa di posizione del Presidente USA Biden, dopo l’innegabile periodo di affievolimento dei rapporti della precedente amministrazione Trump. Le sanzioni economiche nei confronti della Russia messe in campo sono senza precedenti e nell’Unione Europea iniziano a parlare in termini di difesa con un esercito comune europeo e di una svolta energetica drastica per ridurre la dipendenza insostenibile di gas dalla Russia. Insomma, se si guarda in positivo, l’aggressione all’Ucraina è stata l’inizio di una presa di coscienza, perfino di una rinascita.
Ad ogni buon conto, per comprendere meglio la situazione forse un po’ di ripasso di Storia non farebbe male, a cominciare da Jalta.
La Conferenza di Vertice tenutosi nell’ultimo anno della Seconda Guerra Mondiale, dal 4 all’11 febbraio 1945, a Jalta, in Crimea, tra i leader delle tre potenze alleate, W. Churchill (Gran Bretagna), F.D. Roosevelt (Stati Uniti) e I. Stalin (Russia), per discutere, in base al principio delle cosiddette sfere d’influenza, i piani per la conclusione della guerra contro le potenze dell’Asse, l’occupazione e la spartizione della Germania e il successivo assetto dell’Europa. In particolare, furono previsti lo smembramento della Germania in Stati indipendenti e lo spostamento a Ovest delle frontiere della Polonia e si toccarono i problemi della frontiera italiana con l’Austria e la Jugoslavia.
Si diffuse così l’espressione “cortina di ferro”, tradotta dall’inglese iron curtain, dopo il discorso del premier inglese W. Churchill del marzo 1946, per indicare la separazione, territoriale e ideologica, esistente fra i paesi dell’Europa orientale e quelli dell’Europa occidentale.
Ed anche l’espressione “guerra fredda” per indicare la contrapposizione politica, ideologica e militare che venne a crearsi intorno al 1947, tra le due potenze principali emerse vincitrici dalla Seconda Guerra Mondiale: gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. Ben presto divenne più concreta la divisione dell’Europa in sfere di influenza e la formazione di blocchi internazionali tra loro ostili, denominati comunemente come Occidente (gli Stati Uniti e gli altri membri della NATO), Oriente (l’Unione Sovietica e i membri del Patto di Varsavia) e in seguito il terzo blocco dei Paesi non allineati.
Si trattò sostanzialmente della contrapposizione tra due grandi ideologie politico-economiche: la democrazia-capitalista da una parte e il socialismo reale-comunismo dall’altro.
Questa contrapposizione influenzò fortemente per decenni l’opinione pubblica mondiale ed ebbe il suo concreto emblema nella divisione della Germania, in Germania Ovest e Germania Est, con la città di Berlino divisa materialmente da un muro: il Muro di Berlino, figura retorica della cortina di ferro, volta a definire la netta distinzione territoriale e ideologica che si era venuta a creare tra i due blocchi socioeconomici dominanti. Un lungo sistema di recinzione in calcestruzzo armato, lungo 155 km e alto 3,6 metri, che circondò dal 1961 la parte occidentale della città di Berlino.
Furono anni difficili per le popolazioni orientali assoggettate all’influenza sovietica, nel mentre quelle occidentali progredivano notevolmente in economia e in democrazia. Il malcontento incalzava e i tentativi di rivolta venivano prontamente sedati dalle truppe sovietiche (dissidenti incarcerati, ecc.), finché i tempi maturarono per una svolta democratica.
Il 9 novembre 1989, dopo diverse settimane di disordini pubblici, il governo della Germania Est annunciò finalmente che le visite (ai parenti) in Germania Ovest e a Berlino Ovest sarebbero state permesse: molti cittadini della Germania Est si arrampicarono sul muro e lo superarono per raggiungere gli abitanti della Germania Ovest dall’altro lato in un’atmosfera festosa.
Cominciò così la demolizione del muro con picconi e a mani nude e durante le settimane successive piccole parti del muro furono portate via dalla folla e dai cercatori di souvenir.
In seguito furono usate attrezzature industriali per abbattere tutto quello che del muro era rimasto.
La caduta del Muro di Berlino aprì la strada per la riunificazione tedesca, che fu formalmente conclusa il 3 ottobre 1990.
Il fermento aveva indubbiamente contagiato anche gli altri Paesi orientali oltre cortina ed anche la stessa Russia, che cercò di correre ai ripari; ma il vento della democrazia soffiava oramai in maniera inarrestabile.
Il colpo di stato, fallito, che fece crollare l’Unione Sovietica fu tentato tra il 19 e il 21 agosto 1991, ben trent’anni fa, contro l’allora presidente Gorbaciov, ma non andò secondo i piani dei golpisti.
Il 18 agosto del 1991 Michail Gorbaciov, allora segretario generale del Partito Comunista sovietico e presidente dell’URSS, si trovava in vacanza con la famiglia a Foros, in Crimea. Nello stesso giorno, a Mosca, politici conservatori, vertici del KGB (i servizi segreti) e militari approfittarono della sua assenza e diedero inizio alle manovre di un colpo di stato progettato per conservare l’esistenza dell’Unione Sovietica, ma ottennero l’effetto contrario.
Da quando nel 1985 Gorbaciov era succeduto alla guida del Partito Comunista, si era imposto di cambiare le politiche e l’immagine dell’apparato statale. L’Unione Sovietica era finita in uno stato di immobilismo e da decenni era rappresentata da leader anziani e stanchi, come Leonid Brezhnev, Yuri Andropov e Konstantin Cernenko. A 53 anni, Gorbaciov divenne invece un valido interlocutore per l’Occidente e presentò un esteso piano di riforme per tentare di smuovere il paese.
Con i termini glasnost, perestrojka e uskorenie – diventati emblematici di quel periodo – Gorbaciov tentò di rendere l’Unione Sovietica più trasparente, moderna e competitiva: in sostanza cercava di avvicinarsi al mercato e alla comunità internazionale, come testimoniò l’importante accordo sul controllo dagli armamenti firmato al suo secondo anno in carica con gli Stati Uniti (Ronald Regan Presidente USA).
Il 18 agosto 1991, però, alla vigilia della firma di un trattato che avrebbe avvicinato l’istituzione di una Comunità di stati sovietici indipendenti, meno centralizzata rispetto al regime allora esistente, Gorbaciov venne isolato con la famiglia nella sua dacia di Foros. La residenza fu tagliata fuori dalle comunicazioni e i golpisti ne presero il controllo: chiesero a Gorbaciov di dichiarare lo stato di emergenza e di dimettersi, ma egli si rifiutò.
I carri armati usati per cercare di occupare militarmente Mosca vennero però letteralmente fermati da migliaia di persone scese in strada per bloccarli. Ci furono manifestazioni anche in altre grandi città russe, che i golpisti non vollero bloccare per timore delle pesanti conseguenze che gli interventi contro la popolazione avrebbero potuto provocare. Con Gorbaciov isolato in Crimea, chi sfruttò il momento per ottenere consensi fu Boris Eltsin, all’epoca Presidente della Repubblica Russa.
Eltsin e Gorbaciov erano avversari. Secondo il primo, l’economia di quegli anni era sempre più in crisi, le riforme non avevano portato nessun tipo di sollievo, e anzi, avevano peggiorato i problemi finanziari e la questione delle autonomie degli stati sovietici. Gorbaciov invece non si fidava di Eltsin, e successivamente si pentì di non averlo allontanato per tempo dai suoi incarichi.
Il colpo di stato sorprese anche lo stesso Eltsin, che però il 19 agosto si riunì con i suoi collaboratori e scrisse una dichiarazione per condannare il colpo di stato “anticostituzionale e reazionario” e con la quale invitava l’esercito a disertare e i cittadini a organizzarsi in uno sciopero generale. Raggiunse successivamente il Parlamento di Mosca dalla sua residenza fuori città, e una volta arrivato decise di uscire in piazza: una volta fuori, con grande preoccupazione delle sue guardie del corpo, saltò su un carro armato e si mise a leggere la dichiarazione. In quel momento in piazza c’erano 30mila persone e iniziarono ad applaudire. I flash delle macchine fotografiche iniziarono a lampeggiare. Il giorno dopo la foto di Eltsin sul carro armato era sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo: Eltsin e il popolo russo avevano vinto.
Gorbaciov tornò a Mosca nella notte tra il 21 e il 22 agosto. Il colpo di stato era fallito ma aveva in qualche modo accelerato la disgregazione dell’Unione Sovietica, visti i risultati. Gli stati baltici avevano già dichiarato la propria indipendenza e Eltsin, con il favore del momento, spingeva per l’istituzione di una Federazione russa indipendente. Nelle settimane successive il Parlamento di Mosca (la Duma di Stato) abolì il Partito Comunista.
L’8 dicembre dello stesso anno Russia, Ucraina e Bielorussia si riunirono in segreto senza Gorbaciov in una foresta al confine tra Bielorussia e Polonia per pianificare la disgregazione dell’Unione Sovietica. Pochi giorni dopo, il 26 dicembre, Eltsin e i capi di stato di tutte le altre Repubbliche sovietiche si riunirono ad Almaty, in Kazakistan, per completare la separazione, sancendo di fatto la fine dell’URSS. Gorbaciov, che il 24 agosto si era già dimesso da segretario del Partito Comunista, si dimise anche da presidente dell’Unione Sovietica, di cui fu l’ottavo e ultimo leader.
Il presidente Boris Eltsin ha poi rimosso il Capo del Governo in carica Sergej Stepashin nominando Vladimir Putin nuovo premier e, durante il messaggio televisivo alla nazione, tenuto in occasione del terzo anniversario del suo secondo insediamento, ha indicato lo stesso Putin come suo candidato alle elezioni presidenziali dell’anno successivo.
Nel frattempo, gli Stati legati all’ex Unione Sovietica dal Patto di Varsavia hanno chiesto di entrare a far parte dell’Unione Europea e della Nato (Alleanza Atlantica), compresi gli Stati dell’ex Jugoslavia, dopo i cruenti eventi bellici – seguiti alla morte del Maresciallo Tito – che hanno portato all’attuale assetto territoriale e politico. Alcuni di essi sono già entrati e per altri le procedure sono ancora in corso per via della formale verifica del possesso dei requisiti richiesti, come per l’Ucraina.
Inevitabilmente, l’espansione a Est dell’UE e soprattutto della Nato è stata ed è tuttora una fonte di preoccupazione per la Russia, che – a differenza dei tempi della guerra fredda – si trova ora a confinare direttamente con paesi legati a un’alleanza militare (la NATO) nata proprio per contrapporsi a Mosca; e l’Ucraina, guarda caso, è uno degli Stati cuscinetto tra la Russia e i Paesi dell’UE che aderiscono alla NATO.
La Russia è passata quindi alle vie di fatto, tant’è che prima dell’Ucraina ha occupato la Cecenia, la Georgia, la Crimea e già dal 2014 appoggia i movimenti separatisti degli ucraini/russofoni del Donbass che si sono autoproclamati Repubbliche popolari autonome del Donetsk e del Luhansk, che Putin ha naturalmente già riconosciuto (un teatro di guerra civile che dal 2014 ad oggi ha fatto 14mila morti).
E vi è anche il sospetto che Putin non voglia fermarsi all’Ucraina, ma che pensi anche alla riconquista delle Repubbliche Baltiche ed anche degli Stati dell’ex Jugoslavia.
E pensare che a cominciare da Gorbaciov e poi con Eltsin, fino al Putin di qualche anno fa, i rapporti con i Paesi occidentali avevano assunto un clima di distensione e di grande collaborazione, con la presenza della Russia nel G7 (Il Gruppo dei 7 – abbreviato in G7 – che riunisce i Capi di Stato e di Governo delle 7 nazioni più industrializzate del mondo. Ne fanno parte: Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito, Stati Uniti. Nella sua forma allargata alla Russia, il gruppo prendeva il nome di G8), e nel G20 (Il Gruppo dei 20 – G20 – che è un forum creato nel 1999 dopo una serie di crisi finanziarie, allo scopo di favorire il dialogo e la concertazione tra paesi industrializzati e paesi in via di sviluppo. Ne fanno parte: Arabia Saudita, Argentina, Australia, Brasile, Canada, Cina, Francia, Germania, Giappone, India, Indonesia, Italia, Messico, Regno Unito, Russia [ora non più], Stati Uniti, Sud Africa, Sud Corea, Turchia, Unione Europea). I rappresentanti dei Paesi membri sono i Ministri delle Finanze e i direttori o governatori delle banche centrali).
Al momento, nonostante i combattimenti siano ancora in corso, continuano le trattative tra la Russia e l’Ucraina per la ricerca di una via d’uscita onorevole per entrambe le parti in conflitto, con gli incessanti appelli al cessate il fuoco da parte di importanti autorità religiose, della politica e della società civile di tutto il mondo.
L’Italia ripudia la guerra!
Articolo 11 della nostra Costituzione Italiana:
“L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.
Per la guerra in Ucraina, abbiamo condiviso e sottoscritto le Sanzioni inflitte alla Russia e, d’intesa con gli altri Stati, stiamo sostenendo il popolo ucraino con aiuti di natura economica e con equipaggiamenti militari per la loro difesa in armi; partecipiamo inoltre alla costituzione e realizzazione di cordoni umanitari per l’accoglienza e l’inserimento nel nostro Paese dei rifugiati civili che scappano dalla guerra, con uno spirito di solidarietà esemplare.
Confidiamo nel buon senso dei popoli in guerra e auspichiamo la pace di tutti i popoli della terra.

Don Tonino Bello Venerabile

Ieri sera, sabato 15 gennaio 2022, alle ore 18, nella Cattedrale di Molfetta, nel corso della Messa solenne celebrata dal cardinale Marcello Semeraro, prefetto della Congregazione delle cause dei santi della Santa Sede, è stata data formale lettura del decreto di venerabilità di don Tonino Bello.
Evviva: ancora un figlio della terra pugliese agli onori degli altari … in cammino verso le successive tappe per divenire Beato e, ci auguriamo di cuore, presto anche Santo.
Ho assistito con molta devozione alla straordinaria ed esaltante cerimonia religiosa in diretta televisiva di Tele Padre Pio, non solo come corregionale ma soprattutto per reverenziale rispetto verso un nostro contemporaneo, un sacerdote, un vescovo che si è distinto durante la propria vita terrena per le sue doti di eccezionale virtù, in un’epoca complicata e difficile come questa.
Antonio Bello, meglio conosciuto come don Tonino è nato ad Alessano (Lecce) il 18 marzo 1935 ed è morto a Molfetta il 20 aprile 1993.
Figlio di una famiglia del Salento, trascorse l’infanzia in Alessano in provincia di Lecce, un paese prevalentemente a economia agricola.
Dopo gli studi presso i seminari di Ugento e di Molfetta, don Tonino venne ordinato presbitero l’8 dicembre 1957 e incardinato nella diocesi di Ugento-Santa Maria di Leuca. Due anni dopo conseguì la licenza in Sacra Teologia presso la Facoltà teologica dell’Italia settentrionale a Venegono Inferiore e nel 1965 discusse presso la Pontificia Universityà Lateranense la tesi dottorale intitolata I congressi eucaristici e i loro significati teologici e pastorali.
Nel frattempo, gli era stata affidata la formazione dei giovani presso il seminario diocesano di Ugento, del quale fu per 22 anni vice-rettore. Dal 1969 fu anche assistente dell’Azione Cattolica e quindi vicario episcopalee per la pastorale diocesana.
Nel 1978 il vescovo Michele Mincuzzi lo nominò amministratore della parrocchia del Sacro Cuore di Ugento, e l’anno successivo parroco della Chiesa Matrice di Tricase. Qui avrebbe mostrato una particolare attenzione nei confronti degli indigenti, sia con l’istituzione della Caritass sia con la promozione di un osservatorio delle povertà.
Il 10 agosto 1982 fu nominato vescovo delle diocesi di Molfetta, Giovinazzo e Terlizzi e, il 30 settembre dello stesso anno, vescovo della diocesi di Ruvo. Ricevette l’ordinazione episcopale il 30 ottobre 1982 dalle mani di monsignor Michele Minguzzi, arcivescovo di Lecce e già vescovo di Ugento-Santa Maria di Leuca, co-consacranti il vescovo Aldo Garzia, che aveva lasciato pochi mesi prima la cattedra di Molfetta, Giovinazzo e Terlizzi, e l’arcivescovo Mario Migliettaa, della diocesi di Ugento-Santa Maria di Leuca.
Sin dagli esordi, il ministero episcopale fu caratterizzato dalla rinuncia a quelli che considerava segni di potere (per questa ragione si faceva chiamare semplicemente don Tonino) e da una costante attenzione agli ultimi: promosse la costituzione di gruppi Caritas in tutte le parrocchie della diocesi, fondò una comunità per la cura delle tossicodipendenzee, lasciò sempre aperti gli uffici dell’episcopio per chiunque volesse parlargli e spesso anche per i bisognosi che chiedevano di passarvi la notte. Sua la definizione di “Chiesa del grembiule” per indicare la necessità di farsi umili e contemporaneamente agire sulle cause dell’emarginazione.
Fu terziario francescano.
Nel 1985 venne indicato dalla presidenza della Conferenza Episcopale Italiana a succedere a monsignor Luigi Bettazzi, vescovo di Ivrea, nel ruolo di guida di Pax Christi, il movimento cattolico internazionale per la pacee. In questa veste si ricordano diversi duri interventi: tra i più significativi quelli contro il potenziamento dei poli militari di Crotone e Gioia del Colle, e contro l’intervento bellico nella Guerra del Golfoo, quando manifestò un’opposizione così radicale da attirarsi l’accusa di istigare alla diserzione.
A seguito dell’unificazione delle diocesi di Molfetta, Giovinazzo, Terlizzi e Ruvo, disposta dalla Congregazione per i Vescovi il 30 settembre 1986, viene nominato primo vescovo della nuovaa circoscrizione ecclesiastica pugliese.
Nel settembre 1990 fondò a Molfetta, coadiuvato dal movimento Pax Christi, la rivista mensile Mosaico di Pacee.
Tra il 1990 e il 1992 ha scritto alcuni articoli sul quotidiano il manifesto.
Benché già operato di tumore allo stomaco, il 7 dicembre 1992 partì insieme a circa cinquecento volontari da Ancona verso la costa dalmata dalla quale iniziò una marcia a piedi che lo avrebbe condotto dentro la città di Sarajevo, da diversi mesi sotto assedio serbo a causa della guerra civile. L’arrivo nella città assediata, tenuta sotto tiro da cecchinii serbi che potevano rappresentare un pericolo per i manifestanti, fu caratterizzato da maltempo e nebbia. Don Tonino parlò di “nebbia della Madonna” (celebrata, appunto, in data 8 dicembre).
Morì a Molfetta il 20 aprile 1993, e l’anno successivo gli fu conferito il Premio Nazionale Cultura della Pace alla memoriaa.
Il 27 novembre 2007 la Congregazione delle cause dei santi ne ha avviato il processo di beatificazione. Il 30 aprile 2010 si è tenuta la prima seduta pubblica nella cattedrale di Molfettaa alla presenza di autorità religiose e civili.
Il 25 aprile 2014 il presidente della CEI Angelo Bagnasco ha inaugurato ad Alessanoo la “Casa della Convivialità” a lui dedicata.
Il 18 marzo 2015 i frati minori cappuccini, nel convento di Giovinazzoo, in provincia di Bari, hanno inaugurato, alla presenza di autorità civili e religiose e del fratello di don Tonino, Marcello, una statua raffigurante don Tonino.
Il 20 aprile 2018 nel giorno del suo 25º anniversario di morte, papa Francesco si è recato alla sua tomba per poi celebrare a Molfetta una Messa.

Il 25 novembre 2021 papa Francesco ha autorizzato la promulgazione del decreto sulle virtù eroiche; è diventato così Venerabile.
Ecco, qui di seguito, il commosso ricordo del presidente della Fondazione Giancarlo Piccinni (Avvenire del 15 gennaio 2022:
”Ha fatto camminare Gesù nelle strade delle nostre città.
Venerabile oggi, ma da sempre venerato. Don Tonino mi emoziona, e non solo oggi, per quello che stiamo vivendo. Mi emozionano i ricordi, nitidi, di un passato condiviso, mi emoziona la prospettiva di un futuro, gravido di attese. Mi emoziona anche solo pronunciare il suo nome. La Chiesa oggi e tutti fedeli aspettano il riconoscimento di un miracolo per la proclamazione della beatificazione e poi della santità. Chi lo ha conosciuto sa che lui stesso è stato un miracolo!
Con Don Tonino Gesù di Nazaret è passato per le nostre strade, per le nostre case, per le nostre chiese. Siamo stati generati alla fede: per questo lo abbiamo sentito e lo sentiamo nostro padre. Siamo stati rapiti dalle sue parole, ma anche dai suoi silenzi. Perché anche nel silenzio ci ha parlato. Il silenzio è la lingua di Dio e delle persone sagge e don Tonino, come tutti i santi, ha profondamente amato il silenzio perché il silenzio dona uno sguardo nuovo su tutte le cose. Il silenzio genera sapienza. Ma ci mancano anche le sue parole! A scuola, in piazza, nei convegni, ma soprattutto in chiesa: qui raggiungevano significati altissimi perché parlare in un quadro liturgico non ha lo stesso valore che parlare in un altro contesto: «È collocarsi in un luogo dove affluiscono i silenziosi apporti sapienziali dell’assemblea, che in quel momento non è un pubblico, è un soggetto attivo e creativo».
Gli apporti sapienziali dell’assemblea, del popolo, del suo popolo, sono stati sempre preziosi per l’amato pastore. «Grazie Chiesa di Alessano, che mi hai fatto entrare nell’anima il senso del mistero con la tua religiosità popolare», così disse nella sua prima omelia da vescovo. Per don Tonino il popolo è «soggetto di riflessione teologica» e il rapporto tra i saperi del popolo e quelli dei teologi non deve essere unidirezionale, devono invece necessariamente integrarsi. Ognuno di questi saperi ha una sua funzione insostituibile perché specifici, diversi, ne aveva tanta consapevolezza don Tonino che volle ed attuò una pastorale che non solo era per il popolo, ma soprattutto partiva dal popolo.
Quella del popolo è stata sempre una categoria privilegiata per don Tonino e all’interno di essa in particolare i poveri: per la loro fragilità, per la loro universalità, per la loro naturale appartenenza al Vangelo. Don Tonino ha amato il popolo e i poveri al punto tale da superare ogni barriera sino ad ospitarli prima nel suo cuore poi anche nella sua casa. L’ospitalità non è stata vissuta come un rimedio da offrire per risolvere un’emergenza sociale ma come una forma di elaborazione della teologia richiesta dai segni dei tempi che viviamo, una categoria eucaristica ed ermeneutica. Nessuno è stato straniero ai suoi occhi! Aveva intuito la centralità di questo problema, prima che altri affermassero che «il giorno in cui nello straniero si riconoscerà un ospite, allora qualcosa sarà mutato nel mondo», don Tonino aveva già con i fatti superato l’idea dello straniero e invitato il suo popolo a passare dalla ostilità alla ospitalità!
Forte è il fascino che questo pastore ha esercitato ed esercita ancora oggi nella Chiesa e nel mondo. Oggi celebriamo la sua venerabilità: il popolo lo ha sempre venerato! Non solo nella sua terra, ma anche e soprattutto lontano dalla sua terra. Infatti non possiamo dimenticare la sua appartenenza e la sua anima salentina ma è giusto al tempo stesso sottolineare la portata universale del suo messaggio, al punto tale che se ci chiedessimo a chi appartiene oggi il profeta dovremmo dire: a Dio e a tutti!”.
Alla imponente cerimonia di ieri sera nella diocesi di Molfetta-Ruvo-Giovinazzo-Terlizzi è seguita oggi alle ore 9,30 la celebrazione di una Messa solenne nella chiesa collegiata Santissimo Salvatore ad Alessano, paese natale di don Tonino Bello, presieduta dallo stesso cardinale Marcello Semeraro ed in serata, alle ore 17,30 sarà il vescovo di Ugento-Santa Maria di Leuca, Vito Angiuli a presiedere la Messa celebrata in Cattedrale a Ugento.

Foto di repertorio e informazioni tratte da siti Internet
Tarranòve tra gli anni 40 e 60 del secolo scorso – Storie di guerra e di vita che continua

Documenti, foto, corrispondenza, attestati di riconoscimento al merito, fogli matricolari, medaglie e carteggi vari; una documentazione che parla di un periodo storico importante per la nostra nazione ma anche per il mondo intero, quello del secondo conflitto mondiale. Ed ancora, appunti con specifiche ricerche eseguite intorno alla tragica fine del Cacciatorpediniere italiano “Espero”, affondato sulla rotta da Taranto per Tobruk nel 1940, nel quale trovarono la morte tanti giovani connazionali tra cui anche un sottufficiale terranovese della Regia Marina Italiana.
Materiale sufficiente per un libro di memorie di fatti, episodi, avvenimenti riguardanti la Seconda Guerra Mondiale vissuta e combattuta anche da persone di un paesino in terra di Capitanata, ma pure di ricordi di infanzia e prima giovinezza, trascorse in spensieratezza a Tarranòve, Poggio Imperiale, in provincia di Foggia, nell’immediato dopoguerra, da persone ormai avanti con gli anni, che la guerra non l’hanno affatto veduta, ma che sicuramente ne hanno subito le conseguenze, in un Paese ove regnavano macerie, reduci, vedove, orfani, mutilati e mutilatini, prima ancora che la luce si rischiarisse con l’avvento del cosiddetto boom economico che ha visto poi l’Italia rinascere fino a raggiungere livelli di benessere apprezzabili.
L’occasione per raccontare, soprattutto ai più giovani perché abbiano memoria del passato, alcune storie che si intrecciano tra loro; storie che parlano di luoghi e persone, ma che esprimono concetti di portata universale per la loro trasversalità di relazione, svelando il naturale trasporto affettivo dell’uomo alla ricerca di un punto di riferimento che gli dia sicurezza: la famiglia, l’appartenenza, l’amore per la propria Terra.
E prevale la passione per la cultura, la storia, le tradizioni; un sentimento che deve dimorare sempre ad un livello più elevato e nobile rispetto al comune vedere delle cose e, dunque, al di sopra di ogni sospetto di autoreferenzialità, piaggeria o autocompiacimento, per contribuire a mantenere nel tempo gli occhi puntati sul passato, al fine di comprenderne meglio tutti gli aspetti, quelli belli e quelli brutti, quelli piacevoli e quelli meno piacevoli, cercando di costruire tutti assieme, specialmente con le nuove generazioni, un futuro migliore, scevro per quanto possibile degli errori del passato.

Tarranòve
tra gli anni 40 e 60 del secolo scorso
Storie di guerra e di vita che continua
Edizioni del Poggio
2021
= ^ =
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è privata e riservata,
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Termoli: “ A Rejecelle”, il vicolo più stretto d’Italia e d’Europa

In visita nel Borgo Antico diTermoli, in Molise, ci si imbatte nel vicolo “Rejecelle”, considerato il più stretto d’Italia e d’Europa. La sua larghezza, nel punto più ridotto, è di soli 34 centimetri.
Tra i luoghi più singolari e caratteristici della città, l’esclusiva stradina è stata probabilmente concepita per permettere agli abitanti di percorrerla in caso di necessità, come guerre o carestie, evitando così le strade di comunicazione più importanti, tra cui via Duomo e i bastioni di via Montecastello, regolarmente presidiate dai soldati. La sua costruzione risale al primo agglomerato urbano del paese vecchio, mentre la denominazione dialettale “Rejecelle”, ossia “via stretta”, deriva dal termine francese “Rue” (strada), con cui venne battezzato il vicolo nel 1799.
“A Rejecelle”, chiamata così affettuosamente dai termolesi, è dunque la viuzza più contenuta di Termoli; si trova nel cuore del Borgo Antico ed è una sorpresa, oltre che una piacevole scoperta, trovarsela davanti, attraversarla fino in fondo ed esplorare i segreti dell’antico borgo marinaro.
L’esclusiva stradina molisana ha strappato il primato alla marchigiana Ripatransone, sita in provincia di Ascoli Piceno, per una questione di soli due centimetri.
La pavimentazione attuale, a schiena d’asino, è formata da basole in pietra bianca proveniente dalle cave di Apricena – Poggio Imperiale ed originariamente era fatta con ciottoli e pietre grezze. Le pareti che la delimitano si presentano ancora integre, a parte i punti dove i muri sono stati riempiti con intonaco.
Si racconta che, anticamente, i plebei dovevano cedere il passo alla nobiltà e quando nella viuzza si incontravano due gentiluomini, uno di fronte all’altro, dovendo stabilire chi dei due dovesse procedere in avanti, e data l’impossibilità di girarsi, essi ricorrevano a regole molto rigide: il meno nobile indietreggiava e lasciava il passo a quello più altolocato. In caso di pari lignaggio, sorgevano dispute che a volte conducevano al duello tra i due contendenti per lavare l’onta dell’affronto.
Oggi, invece, soprattutto i turisti, ci vanno per fare la prova pancia … poiché nella strettoia ci passano solo le persone magre!

Dal Libro ”25°Festival internazionale del folklore” (http://www.prolocotermoli.it/a-rejecelle.html):
“’A Rejecelle’, piccola stradina situata nel cuore del borgo antico di Termoli, ricavata tra i fabbricati, contrassegnati dai numeri civici 6 dal lato vico 2° castello e dai numeri civici 21 e 38 del lato di via Campolieti Nicola Maria e via Salvatore Marinucci, è considerata non a torto uno dei luoghi più singolari e caratteristici della città di Termoli.
La sua costruzione risale certamente al primo agglomerato urbano del Borgo, come si evince dal materiale impiegato per la costruzione delle pareti dei due fabbricati che la delimitano e per il materiale posto a copertura: ciottoli, pietre arenarie, mattoni, travi….
La stradina, nel corso dei secoli, ha subito varie trasformazioni, specialmente nella parte superiore che doveva essere originariamente tutta coperta con tavole e tegole, sostenute da archetti di mattoni e travi in parte ancora visibili.
Sicuramente fu realizzata per far muovere indisturbati gli abitanti del borgo, specialmente in caso di necessità derivante da eventi di varia natura, come guerre, dominazioni e carestie, evitando così il percorso delle strade di comunicazione più importanti, quali l’attuale via Federico 2° di Svevia, via Duomo, via San Pietro e i bastioni di via Montecastello, regolarmente presidiate dai soldati.
Fu con la denominazione francese del 1799 che si cominciò ad indicarla con l’attuale nome: infatti i francesi la chiamavano “Rue” che, nella loro lingua significa Strada e solo successivamente il termine, con il passare del tempo fu distorto dai termolesi con il maccheronico francesismo “Rejecelle” , cioè strada piccola e stretta. E’ lunga appena mt. 7,88 è coperta per mt. 3,30 dal lato di via Campolieti, mentre la restante parte è a cielo aperto ed ha le pareti storte e curvilinee, che si restringono nella parte superiore, rispetto alla base, specialmente nella zona centrale. L’ingresso di via Campolieti si presenta con un apertura a rientrare, alta mt. 1,77 con la parte superiore completamente chiusa, riempita con pietre, mattoni e calce ed è sorretta da tavole e travi, unitamente ad un manufatto di mattoni poco visibile. La larghezza alla base è di mt. 0.59 mentre al centro misura mt. 0,50, la parte al centro della strada ha la base di mt. 0,60, quella di centro mt. 0,40 con punti a salire a mt. 1,80 da terra, di mt. 0,34 e 0,35 per terminare, nella parte superiore, con una larghezza di molto inferiore a mt. 0,30. L’ingresso di vico 2° castello ha un’apertura alta mt. 2,52, sormontata da un muro di mattoni e pietre di mt 1,40, sostenuto da un archetto di mattoni; a poca distanza dall’archetto d’ingresso c’è un primo e un secondo manufatto in mattoni che serviva a sorreggere la copertura e a tenere uniti i muri perimetrali della strada. Vicino alle due pareti d’ingresso di vico 2° castello ci sono due aperture di mt. 0,25 x 0,30, realizzate abusivamente, evidentemente per arieggiare i locali di due fabbricati adiacenti; inoltre al centro della strada e, precisamente sulla parete sinistra, si notano i resti di una canna fumaria che sbuca verso l’alto, chiusa alla base da un pezzo di tavola che a suo tempo raccordava la parete per poi rientrare nell’abitazione del civico 21 sicuramente un camino. La pavimentazione attuale, a schiena d’asino, è formata da marmette di pietra bianca d’Apricena; originariamente era fatta da ciottoli e pietre. Sostanzialmente integre si presentano le pareti che la delimitano, a parte i punti dove i muri sono stati riempiti con intonaco, e nella parte dove si alza la canna fumaria dove sono state realizzate le due piccole aperture; quello che preoccupa maggiormente è la parte che sorregge la copertura della strada con l’archetto d’ingresso del lato vico 2° castello con manufatti di mattoni, tra i muri perimetrali, adibiti a sostegno delle abitazioni, poiché in mancanza di cura e di manutenzione si notano segni di indubbia staticità. Per le sue caratteristiche e le sue architettoniche ‘a Rejecelle’ rappresenta un grande pregio artistico-culturale e un inestimabile valore storico-architettonico”.
Ma Termoli non è solo la “Rejecelle”; Termoli è una città veramente interessante e qualche anno fa, con precisione il 30 luglio 2011, pubblicai su questo stesso Sito/Blog www.paginedipoggio.com un articolo dal titolo “Termoli … mare, sole e il Borgo vecchio!”, alla pagina https://www.paginedipoggio.com/?p=3034, che riporto qui di seguito:

Termoli … mare, sole e il Borgo vecchio!
Una zuppa di pesce in uno dei suoi caratteristici ristoranti marinari o semplicemente una passeggiata nei vicoli del Borgo vecchio tra locali e negozietti aperti fino a tardi, assaporando magari un gustoso gelato; questo (ed altro ancora) offre Termoli nelle sere d’estate, dopo una giornata di mare e di sole.

Arroccato su un piccolo promontorio roccioso, il Borgo vecchio di Termoli, che molti dicono ricordi la forma di un cuore ed altri di un pugno, si protende verso il mare Adriatico, dove verso est si intravede, nelle giornate limpide, il profilo dell’arcipelago delle isole Tremiti, raggiungibili in motonave o in aliscafo dal porto di Termoli.
Il Borgo vecchio risale al V secolo: la città visse tra le mura che recintano il Borgo vecchio fino al 1847, quando re Ferdinando Il di Borbone autorizzò i termolesi a costruire fuori dalle mura.
Il Borgo appare come un intricato labirinto di stradine strette e tortuose, tra cui il celebre Vico II Castello [n.d.A.: in dialetto denominato “a Rejecelle”], – tra i più stretti d’Europa – che si stringono attorno al Duomo (Cattedrale di San Basso patrono di Termoli), quasi a voler sfruttare ogni metro quadrato disponibile dell’esiguo spazio, ove l’azzurro del mare riempie di colore ogni suo scorcio.
La chiesa principale di Termoli è un insigne monumento di arte romanica con oltre 800 anni di storia, che ha mantenuto immutato nei secoli il suo splendore con i colori della pietra chiara con cui è stato costruito; ancora prima nello stesso posto sorgeva un’altra cattedrale piena di mosaici, presumibilmente costruita sulle rovine di un tempio romano.
Nel tempo, molte cose sono cambiate, soprattutto dopo che – ormai da diversi anni – è iniziato il recupero architettonico e la valorizzazione del Borgo vecchio, che appare oggi come uno scrigno in cui le casette rimodernate, ma (quasi) sempre in perfetto stile con l’originario impianto architettonico , custodiscono la storia di secoli.
Per entrare nel Borgo vecchio ci sono due ingressi, uno sul lato nord, ai piedi del Castello, e uno sul lato del porto, caratterizzato da una porta ad arco e dalla torretta del Belvedere dalla quale si ammira il panorama del porto gremito di colorate barche dondolanti e della spiaggia a sud di Termoli.
Dentro le mura del Borgo vecchio di Termoli le casette dei pescatori lasciano poco spazio alle stradine strette e attorcigliate, come si conviene a una cittadella fortificata che subiva l’assalto dei Turchi (e altri invasori) e doveva fare di ogni angolo un punto di difesa e di ogni strettoia un mortale agguato.
Fra scorci incantevoli e sprazzi di mare che guizzano sullo sfondo di un vicoletto, di tanto in tanto si schiudono piccole e graziose piazzette.
Nel dedalo di viuzze e stradine si apre inaspettata, quasi a sorpresa, una piazza più ampia, recintata da case basse colorate di bianco e d’ocra, e lì ad un angolo la Cattedrale di San Basso.
Continuando a passeggiare lungo il perimetro della cinta muraria si arriva al Faro che dialoga in silenzio con la luce del corrispondente Faro di Punta Penna sul promontorio di Vasto; a questo punto del percorso si staglia netta l’immagine del Castello Svevo, dal suo ingresso fino alla cima dove si trova la torretta meteorologica costruita dall’Aeronautica militare.
Il Castello caratterizza con il suo profilo l’immagine del Borgo vecchio. La sua struttura è semplice ed è costituita da una base tronco-piramidale munita di torrette cilindriche agli spigoli e sormontata da una torre parallelepipeda di minori dimensioni. Sul lato nord è visibile l’avancorpo dell’antico ponte levatoio, che fungeva da ingresso. La semplicità della struttura e le sue caratteristiche difensive fanno pensare che sia stato costruito in epoca normanna (XI secolo), nel luogo ove già esisteva un torrione di epoca longobarda.
Il Castello è comunemente definito Svevo, probabilmente in seguito alla ristrutturazione, databile intorno al 1247, che Federico II fece eseguire, come testimonia una lapide ritrovata all’interno di una delle torrette angolari. Tale intervento sarebbe stato attuato nel 1240, successivamente alla distruzione delle difese esistenti per opera della flotta veneziana, alleata di Papa Gregorio IX.
Nel corso dei secoli il Castello ha subito varie modifiche soprattutto dopo l’avvento delle armi da fuoco. Durante i recenti restauri sono stati ritrovati dei graffiti databili al secolo XVI, ed alcuni disegni al carbone lasciati sulle pareti della cisterna inferiore nel periodo in cui questa era adibita a carcere borbonico.
Dal 1885 il Castello di Termoli è stato annoverato tra i monumenti nazionali e designato quale museo storico regionale.
La festa di San Basso patrono di Termoli
La festa religiosa di San Basso ricorre il 5 dicembre, giorno in cui nella cattedrale romanica, dove sono conservate le reliquie, il vescovo celebra una solenne Messa in onore del Santo alla presenza di autorità, associazioni, marinai e gente devota. Ma i festeggiamenti veri e propri si tengono in estate tra il 3 ed il 4 agosto. La mattina del 3 agosto, dopo la S. Messa in cattedrale, si procede con la tipica e suggestiva “processione per mare”, durante la quale la statua di San Basso viene portata a bordo del motopeschereccio della flotta termolese, estratto a sorte giorni prima, addobbato per l’occasione. Le altre imbarcazioni seguono l’imbarcazione del Santo cariche di gente, formando così un corteo molto suggestivo. A metà percorso, dal battello col Santo viene gettata in acqua una corona di fiori in onore del protettore ed in segno di legame con il mare: un’antica leggenda narra, infatti, che furono proprio dei pescatori termolesi a ritrovare a largo il sarcofago con le reliquie del vescovo San Basso. A mezzogiorno circa il corteo rientra in porto e la festa prosegue in serata quando la statua viene portata a spalla in processione per le stradine del Borgo fino al mercato ittico dove viene venerata fino al mattino successivo. Alle 6 del mattino del 4 agosto, dopo la veglia notturna, viene celebrata una Messa dinanzi allo stesso mercato che conclude la permanenza della statua del santo negli ambienti dei marinai. La sera alle 19,00 viene celebrata un’altra Messa, stavolta nella piazza antistante la Cattedrale, e a seguire l’ultima processione, la più partecipata, stavolta per le vie cittadine. La festa prosegue poi tra bancarelle, noccioline, giostre e gli immancabili spettacolari fuochi pirotecnici che salutano rimandando l’appuntamento all’anno successivo.
Al via il Green Pass

Green Pass (1) per accedere ad aerei, treni, cinema, ristoranti, bar, ecc.
L’annuncio del Presidente francese Macron dei giorni scorsi ha fatto schizzare di oltre due milioni in Francia il numero delle prenotazioni per farsi vaccinare.
E, nel nostro Paese, favorevoli o contrari?
E’ costituzionale o incostituzionale?
Si è aperto anche in Italia il dibattito che, come sempre, riempie spazi televisivi, giornali, reti sociali, salotti, piazze, spiagge, navi da crociera, stadi di calcio, cinema, teatri, ristoranti, discoteche, bar, eccetera, con argomentazioni più disparate, senza mai venirne a capo e soprattutto ributtando il tutto in caciara, ma anche in politica (evidentemente ai soli fini di rendita elettorale), cosicché la Lega di Salvini e Fratelli d’Italia della Meloni definiscono aberrante tale ipotesi, mentre tutti gli altri – in maniera ondivaga – si muovono in ordine sparso secondo come gira il vento.
Oltre quattromilioni di morti nel mondo e quasi centotrentamila solo in Italia rappresentano cifre da capogiro, e l’insorgenza di continue varianti che subdolamente aggrediscono il genere umano in questa guerra senza frontiere, non ci lascia scampo: l’unica arma di difesa oggi disponibile, grazie all’immenso sforzo della Comunità scientifica, è il vaccino anti Covid-19. La Comunità scientifica che in soli otto mesi è riuscita a bruciare le tappe, ma anche grazie agli Stati che hanno messo in piedi una potente macchina logistica per la distribuzione e l’inoculazione del prodotto.
Come non mai, al netto delle prime, inevitabili complicazioni iniziali, è partito un sistema di prenotazione di una semplicità esemplare, Centri vaccinali organizzati alla perfezione, per ciascuno un medico a disposizione per il triage preventivo nel corso del quale rappresentare il proprio stato di salute e ricevere indicazioni qualificate circa il vaccino che verrà iniettato, rilascio immediato di certificazione con contestuale fissazione della data, ora e luogo per la seconda dose, fatta la quale ti arriva sul telefonino il Codice per scaricare il tuo “Green Pass”.
Su Marte?
No … qui da noi … in Italia!
E, allora, dov’è il problema?
Fake news e controinformazioni di ogni genere minano costantemente il faticoso lavoro degli scienziati, medici, operatori, volontari, ecc., mettendo i bastoni tra le ruote per scoraggiare la gente a vaccinarsi, ostacolando o comunque rallentando i processi finalizzati al raggiungimento della cosiddetta “immunità di gregge”.
Un interessante articolo dal titolo, che riporto testualmente, “Oggi ‘raggelante’, nel 2018 ‘una conquista importante’: Meloni cambia idea sulla vaccinazione obbligatoria”, è stato pubblicato ieri su Huffington Post. Nell’articolo viene riportata anche la (vivace) reazione del noto virologo Roberto Burioni: “Meloni vuole garantire al virus la libertà di ucciderci e rovinarci la vita”, il quale ricorda altresì alla leader di FdI che “la prima vaccinazione moderna obbligatoria in Italia risale al 1939”. E, della Meloni, vengono riportati integralmente sia il Twitter del 2018 che quello dell’altro ieri.
“I vaccini sono una delle conquiste più importanti nella storia della medicina. Le vaccinazioni obbligatorie sono lo strumento che la Comunità scientifica ci consiglia per debellare patologie solo apparentemente sconfitte per sempre”. Era il 2018 e sono passati solo due anni, ma l’opinione di Meloni sulla vaccinazione obbligatoria è cambiata radicalmente.
“L’idea di utilizzare il Green Pass per poter partecipare alla vita sociale è raggelante, è l’ultimo passo verso la realizzazione di una società orwelliana” ha scritto la leader di FdI su Twitter ieri l’altro, scagliandosi contro la decisione del presidente francese Macron di impedire l’ingresso nei locali al chiuso, agli eventi e sui mezzi pubblici alle persone che rifiutano di vaccinarsi e che quindi non possiedono il Green Pass, definendo la decisione di Macron “una follia anticostituzionale che Fratelli d’Italia respinge con forza”. Meloni ha poi spiegato che la vaccinazione deve avere a che fare con la libertà individuale, che per il suo partito è “sacra e inviolabile”.
Eppure nel post di due anni prima Meloni spendeva parole d’elogio nei confronti della vaccinazione obbligatoria. E anzi, sottolineava l’importanza di non fornire messaggi contraddittori su questo aspetto. “Lanciare messaggi confusi e contraddittori, con il rischio di alimentare paure e notizie false, è un errore che la politica non deve commettere. La salute degli italiani, e in particolare dei nostri figli, non è argomento sul quale dividersi o dare giudizi sommari” scriveva nel post.
È subito arrivata la reazione critica di Roberto Burioni alle parole di Meloni, il quale in un post sempre sullo stesso social network ha scritto: “La battaglia di Giorgia Meloni per garantire al virus la libertà di uccidere, rovinarci la vita, farci chiudere le scuole, distruggere l’economia non la capisco e non c’entra niente”. Il virologo, facendo riferimento ad alcuni accenni storici, ha poi ricordato alla leader di FdI che “la prima vaccinazione moderna obbligatori risale al 1939″. In quell’anno, quando come Presidente del Consiglio c’era Benito Mussolini, venne resa obbligatoria la vaccinazione antidifterica entro i primi due anni di vita.
Ed ora torniamo ai nostri giorni.
Oggi si osanna la libertà individuale, “sacra e inviolabile”, in nome della quale tutto è possibile, omettendo tuttavia di soffermarsi su alcuni aspetti spesso trascurati.
Il principio di libertà acclamato e glorificato (a senso unico) solamente come “diritto sacro e inviolabile”, sottende il pieno rispetto di precisi obblighi da parte dei consociati, classificabili come sacrosanti “doveri” ai quali attenersi ineludibilmente. Infatti, soventemente, diciamo: ”la tua libertà finisce dove inizia la mia”.
Orbene, da queste semplici osservazioni, risulta del tutto evidente che in carenza del rispetto dei doveri da parte dei tanti non è assolutamente possibile garantire la libertà dei singoli. Sono libero di circolare, a condizione che il mio percorso non venga ostacolato da chicchessia; sono libero di godere della mia casa a condizione che altri non violino il mio domicilio. Ma non sempre è così, ragione per cui sono costretto a chiudermi in casa e mettermi la porta blindata.
La “salute” è un bene prezioso da tutelare sopra ogni cosa e per fare questo siamo chiamati ogni giorno, in ogni attimo della nostra vita, a sottoporci ad una infinità di doveri di natura personale, ma anche e soprattutto collettiva.
E allora occorre bilanciare il diritto alla salute con la libertà individuale, proprio quello che in questo catastrofico periodo di pandemia si stanno sforzando di fare tutti gli Stati, cercando per quanto più possibile e senza costrizioni di sorta, di contemperate i diritti con i doveri dei propri consociati.
Dice oggi Alessandro Sallusti su Libero “La libertà di vaccinarsi è inviolabile, ma c’è anche il diritto della maggioranza dei cittadini a non vedere vanificato il proprio senso di responsabilità: anche loro sarebbero vittime di nuove restrizioni se i casi gravi di non vaccinati da virus aumentassero significativamente”.
E, per finire, domenica scorsa la nazionale di calcio italiana è stata consacrata Campione d’Europa, per la seconda volta dopo ben 53 anni, ma la gloria calcistica (italiana) non può e non deve nascondere la vergogna (nazionale) dell’aggressione dei detenuti di Santa Maria Capua Vetere. Così come non può giustificare neanche l’imbarazzo degli insensati assembramenti di Roma per osannare i nostri campioni, considerata la particolare situazione di allarme epidemico.
In medio stat virtus! (2)
Note
1. Green Pass (Certificazione verde Covid-19) rilasciata dal Ministero della Salute, in formato digitale e stampabile, attraverso la Piattaforma nazionale e sulla base dei dati trasmessi dalle Regioni e Province Autonome.
Per certificazione verde (Green Pass) si intende una certificazione comprovante uno dei seguenti stati:
- l’avvenuta vaccinazione contro il COVID-19;
- la guarigione dall’infezione COVID-19;
- il risultato negativo del test molecolare o antigenico rapido (eseguito nelle 48 ore antecedenti).
2. In medio stat virtus. Dal latino “la virtù sta nel mezzo” – Sentenza della scolastica medievale che deriva da alcune frasi dell’Etica Nicomachea di Aristotele, esprimenti l’ideale greco della misura, della moderazione, dell’equilibrio: la virtù è nel mezzo, tra due estremi che sono ugualmente da evitare. È talvolta ripetuta per affermare la necessità o la convenienza della moderazione, dell’equilibrio, o come invito a evitare gli eccessi (Cfr. Treccani).
