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10
Feb

10 febbraio, il “Giorno del Ricordo” delle vittime delle foibe


In occasione dell’anniversario del Giorno del Ricordo di quest’anno, il Capo dello Stato Sergio Mattarella ha ricordato che, mentre il mondo si avviava al “graduale ritorno alla libertà e alla democrazia, un destino di ulteriore sofferenza attendeva gli italiani” nelle zone occupate dalle truppe jugoslave: “Non si trattò di una ritorsione. Non erano fascisti in fuga, erano semplicemente italiani”. E poi ha parlato dell’Unione Europea: “Nacque per dire mai più fanatismi”.

Il Giorno del Ricordo è una solennità civile nazionale italiana, istituita con la legge 30 marzo 2004 n. 92, che viene celebrata il  10 febbraio di ogni anno con l’intento di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e dell’esodo durante la Seconda guerra mondiale e nell’immediato dopoguerra (1943-1945), con particolare riguardo alle persone soppresse e infoibate in Istria, a Fiume, in Dalmazia o nelle province dell’attuale confine orientale, dall’8 settembre 1943 (data dell’annuncio dell’entrata in vigore dell’armistizio di Cassibile), al 10 febbraio 1947 (giorno della firma dei trattati di pace). La data prescelta è il giorno in cui, nel 1947, furono firmati i trattati di pace di Parigi, che assegnavano alla Jugoslavia, l’Istria, il Quarnaro e la maggior parte della Venezia Giulia, in precedenza facenti parte dell’Italia.

Le foibe (e da esse infoibare) sono delle profonde cavità naturali carsiche nelle quali furono gettati molti dei corpi delle vittime; un termine proveniente dal dialetto giuliano e che trova origine nel latino fovea, ovvero fossa o cava.

I massacri delle foibe sono stati degli eccidi ai danni della popolazione della Venezia Giulia e della Dalmazia, avvenuti da parte dei partigiani jugoslavi e dell’OZNA (letteralmente “Dipartimento per la protezione del popolo” dei servizi segreti militari jugoslavi).

Al massacro delle foibe seguì l’esodo giuliano dalmata, ovvero l’emigrazione forzata della maggioranza dei cittadini di etnia e di lingua italiana dalla Venezia Giulia e dalla Dalmazia, territori del Regno d’Italia prima occupati dall’Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia del maresciallo Josip Broz Tito e successivamente annessi dalla Jugoslavia. Si stima che i giuliani, i fiumani e i dalmati italiani che emigrarono dalle loro terre di origine ammontino a un numero compreso tra le 250.000 e le 350.000 persone.

Per estensione i termini “foibe” e il neologismo “infoibare” sono diventati sinonimi di uccisioni che in realtà furono in massima parte perpetrate in modo diverso: la maggioranza delle vittime morì nei campi di prigionia jugoslavi o durante la deportazione verso di essi. Si stima che le vittime in Venezia Giulia e nella Dalmazia siano state circa 11.000, comprese le salme recuperate e quelle stimate, più i morti nei campi di concentramento jugoslavi.

Io e mia moglie abbiamo avuto modo di visitare la foiba di Basovizza in occasione di alcuni nostri soggiorni a Trieste e dintorni; si tratta di  un inghiottitoio che si trova nella zona nord-est dell’altopiano del Carso a 377 metri di altitudine.

Nel periodo dell’occupazione jugoslava di Trieste in quella foiba fu gettato dai partigiani jugoslavi un numero imprecisato di persone e, a ricordo di tutte le vittime degli eccidi, sul luogo è stato edificato un monumento. Il presidente della Repubblica Italiana Oscar Luigi Scalfaro, nel 1992, ha dichiarato monumento nazionale il pozzo che, in origine, era un pozzo minerario: esso divenne però nel maggio del 1945 un luogo di esecuzioni sommarie per prigionieri, militari, poliziotti e civili, da parte dei partigiani comunisti di Tito, dapprima destinati ai campi d’internamento allestiti in Slovenia e successivamente giustiziati a Basovizza.

Il ritorno (o riunificazione) di Trieste all’Italia avvenne in seguito agli accordi sottoscritti il 5 ottobre 1954 fra i governi  d’Italia, del Regno Unito, degli Stati Uniti d’America e della  Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia con il Memorandum di Londra, concernente lo status del Territorio Libero di Trieste; in particolare si stabiliva il passaggio di amministrazione della Zona A dall’amministrazione militare alleata all’amministrazione civile italiana e quindi passavano all’Italia i seguenti comuni della zona A: Duino, Aurisina, Sgonico, Monrupino, Trieste, Muggia, San Dorlingo della Valle.

Nella zona A erano presenti 5.000 soldati americani della TRUST (Trieste United States Troops) e 5.000 soldati britannici della BETFOR (British Element Trieste FORce). La presa di possesso della zona A avvenne il 26 ottobre 1954 e gli alleati si ritirarono tra il 25 e il 27 ottobre 1954.


Il Friuli Venezia Giulia è stata una delle zone più militarizzate d’Europa, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale alla caduta del Muro di Berlino: si calcola che circa tre milioni di persone abbiano svolto il servizio militare in quella regione e che ben 428 fossero i siti militari dislocati  su 102 chilometri quadrati di territorio. Oggigiorno molte di quelle caserme sono in dismissione, dopo oltre mezzo secolo di presenza militare che ha segnato la vita di tanti italiani, anche civili, che hanno vissuto gomito a gomito con l’Esercito, come ristoratori delle trattorie nei pressi delle caserme, i fornai che ricordano come le caserme fossero a volte il pilastro dell’economia di un intero paese, i tabaccai, i postini a portar quintali di lettere. Ma anche la formazione di giovani coppie di innamorati (lui militare meridionale, lei friulana).

Anch’io conservo dei ricordi della mia permanenza a Trieste per servire la patria, come veniva denominato un tempo il servizio militare di leva obbligatorio e, in particolare, ricordo le esercitazioni militari e di tiro che svolgevamo sulle alture di Monrupino, nella zona montuosa di confine con la ex Jugoslavia. Ero dislocato alla Caserma di Polizia “Duca D’Aosta” in via Damiano Chiesa di Trieste, in zona San Giovanni.

E, da quello che è dato sapere, la Seconda guerra mondiale è passata anche dalla Caserma Duca d’Aosta, una ex caserma dell’Esercito divenuta successivamente Scuola di Polizia, lasciando una scia di sangue finita nel dimenticatoio. Ma, dall’ottobre 2012, l’area (di oltre 40.000 mq.) è stata decretata  bene culturale particolarmente importante, ”esemplare testimone di un lungo periodo della storia particolare della nostra città e specialmente di momenti tragicamente drammatici e del dolore di tanti uomini e donne che vi sono transitati o vi hanno perso la vita in modo atroce”, condizione che rende molto difficile, se non addirittura impossibile, dismissioni o altre forme di speculazione edilizia.

Alla fine del XVII secolo,  il sito risultava di proprietà della famiglia patrizia dei de Bonomo, mentre all’inizio del Novecento vi trovarono sviluppo diverse attività industriali come il pastificio Fratelli Girardelli Società Anonima in Trieste, la Fonderia Osvaldella e il colorificio Astra Società per Industria e Commercio a.g.l. con annessa fabbrica del ghiaccio.

Verso la fine del 1928 lo Stato acquistò l’intera area e dopo un intervento edilizio importante inaugurò la caserma intitolandola a Emanuele Filiberto Duca d’Aosta, quale sede del glorioso 34° Reggimento Artiglieria da Campagna,  di cui rimane ancora oggi il prezioso monumento commemorativo che si trova ai bordi del piazzale della caserma.

Nel 1931 il comando venne assunto dal Principe Amedeo di Savoia Duca delle Puglie, figlio di Emanuele Filiberto di Savoia.

A maggio del 1939 il Reggimento assunse la denominazione di 23° Reggimento Artiglieria Sassari e tornò ad essere dal 1940 ancora 34° Reggimento Artiglieria Sassari.

L’8 settembre vide il dissolvimento di tutti gli assetti dello Stato italiano compreso il suo esercito e il 34° ”Sassari”, posto a difesa di Roma, venne sciolto e la caserma immediatamente occupata dalle SS tedesche, che la trasformano in un centro di arruolamento al Lavoro coatto della Todt (1)

Con la resa delle truppe tedesche, il 1° maggio del 1945, l’Armata Jugoslava occupò Trieste e il sito venne subito utilizzato dall’OZNA, la polizia segreta jugoslava, come luogo di prima detenzione, di interrogatorio e di tortura.

Molti civili e militari arrestati vennero portati alla Duca d’Aosta; tanti non fecero più ritorno alle loro case per essere stati avviati ai campi di concentramento prontamente realizzati in territorio sloveno o per essere destinati, attraverso sommarie esecuzioni, alle foibe.

Nel giro di poco tempo si alternarono dunque nazisti prima e armata titina dopo. E dentro sempre triestini vittime ora di uno e ora dell’altro.

Con l’arrivo delle truppe anglo americane la Caserma Duca d’Aosta venne occupata dal 351° Infantry Regiment con i Blu Devils,  gli eroici diavoli blu americani e dal Genio Inglese con il 55° e il 66° Royal Engineers.
Quando il 25 ottobre del 1954 le truppe anglo-americane lasciarono Trieste, riconsegnandola definitivamente all’Italia, gli edifici della Duca d’Aosta vennero destinati al Corpo Guardie di Pubblica Sicurezza.
L’intera struttura dal 10 aprile del 1962, con decreto dell’allora Ministro dell’Interno Paolo Emilio Taviani, si trasformò definitivamente in Scuola Allievi Guardie di Pubblica Sicurezza, prezioso centro formativo nazionale tutt’ora utilizzata per la formazione degli Allievi Agenti della Polizia di Stato.

Nota (1)

Fritz Todt quale Ministro degli armamenti ed approvvigionamenti dell’esercito nazista concepì una organizzazione – chiamata appunto Todt – di lavoro coatto impiegando prigionieri di guerra al fine di realizzare strade e ponti di interesse militare, ma anche opere squisitamente militari. Un esempio di lavoro eseguito fu la famosa linea gotica, ma tantissimo questa impresa fece in Germania e nei paesi occupati impiegando una manovalanza a costo zero che arrivò fino al milione e mezzo di uomini. A Trieste la Todt aveva sede nel palazzo del Museo del Risorgimento che fu del tutto svuotato per fare posto a questa organizzazione tra i cui lavori troviamo anche parte della rete di gallerie nella zona del Tribunale e Scorcola nota come Kleine Berlin

Le notizie sulla caserma Duca D’Aosta, sopra riportate, sono desunte dalle ricerche storiche di Federica Verin, dipendente dell’Istituto di Polizia di Trieste, riportate in “La mia Trieste”  https://www.lamiatrieste.com/2016/07/20/scuola-di-polizia-san-giovanni/

Foto di repertorio da Internet

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