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Tra gli Amish americani
Negli Stati Uniti d’America vive una comunità di tranquilli e pacifici agricoltori fermi a duecento anni orsono.
Si tratta degli Amish americani, i quali rifiutano la società moderna in quasi tutti i suoi aspetti e si vestono, vivono e lavorano secondo regole di due secoli fa.
Io e mia moglie abbiamo avuto modo di visitare negli USA un insediamento di Amish tornando dal Canada, dopo aver visitato le Cascate del Niagara, e diretti a Washington.
E’ stato un salto a ritroso nel tempo: carrozze come mezzi di locomozione; uomini, donne e bambini che sembravano usciti da un film dell’ottocento, nei loro tipici costumi d’epoca; contadini nei campi che aravano la terra con aratri trainati da cavalli; donne assorte alle faccende domestiche in maniera rigorosamente tradizionale, ecc.
Non è ammessa elettricità, sostituita da forme alternative di energia come vento, sole ed acqua; non ci sono automobili e la principale forza motrice sono i cavalli che trainano i carri neri divenuti simbolo degli Amish.
L’abbigliamento è quello tardo ottocentesco ma molto semplificato: cappello, vesti scure e calzoni dal fondo largo per gli uomini, che appena si sposano portano la barba, e abiti privi di ornamenti con maniche lunghe, grembiuli e cuffiette attorno ai capelli per le donne.
Sono vietate tutte quelle cose che intaccano la struttura sociale e che comunque rappresentano desideri superflui e di vanità; ovunque regna la tranquillità, la pace interiore ed esteriore, la propensione al perdono e il forte senso religioso sono la base del loro vivere.
Attualmente vivono commercializzando i loro prodotti della terra, nonchè confetture, marmellate, miele, sciroppo d’acero, torte, biscotti e tante altre buone cose che noi abbiamo avuto l’occasione di degustare ed acquistare presso uno dei propri punti vendita.
Gli Amish sono un gruppo religioso protestante che affonda le proprie radici nella comunità Mennonita. Facevano parte del primo movimento anabattista europeo che si scisse dal Protestantesimo ai tempi della Riforma: perseguitati come eretici sia dai Cattolici sia dai Protestanti, furono costretti a rifugiarsi sulle Alpi Svizzere e nel sud della Germania e qui nacque la tradizione Amish di dedicarsi all’agricoltura e di radunarsi nelle case e non nelle chiese per seguire le loro funzioni religiose.
La comunità è stata fondata alla fine del 1.600 dallo svizzero Jacob Amman.
Emigrati negli Stati Uniti, principalmente in Pennsylvania, per sfuggire a persecuzioni, gli Amish, protestanti, basano la loro fede sul rigido rispetto della Bibbia e sul rifiuto del progresso. Oggi vivono in 22 stati ed in Canada. Ma l’Old Order Amish (circa 16-18mila persone) vive in Pennsylvania, tra Filadelfia e Lancaster.
In genere sono trilingue, poiché parlano la lingua del paese nel quale vivono, ma essendo di cultura normalmente germanica, parlano in famiglia anche un dialetto tedesco, che nasce dall’unione della lingua del paese ospitante col tedesco, inoltre usano la lingua tedesca nei servizi religiosi.
Le donne e le ragazze indossano abiti molto modesti con maniche lunghe e gonne mai sopra la caviglia: non si tagliano mai i capelli che portano raccolti sulla nuca coperti da una cuffia bianca se sono sposate o nera se sono single. Non hanno gioielli. Gli uomini ed i ragazzi sono vestiti per lo più di scuro con gilet e bretelle. Non hanno baffi, ma, dopo il matrimonio, si fanno crescere la barba. Gli Amish considerano tutto questo un’espressione di fede e di incoraggiamento all’umiltà che permea tutta la loro vita dedicata al duro lavoro dei campi.
Essi rifiutano la modernità, ma non in quanto tale. Oggetti che non portino valori indesiderati nella casa e non provochino crepe nella struttura sociale sono i benvenuti se si rendono davvero necessari e se non sono un desiderio vanitoso e superfluo. Usano per esempio la stufa a legna moderna, perché migliore e meno costosa di stufe più vecchie, ma non transigono sull’abbigliamento o sui consumi alimentari, che rimangono legati alla tradizione.
Per lo stesso motivo gli Amish non considerano nemmeno la televisione, sono aperti invece ai libri e alle riviste a patto però che non vadano contro la propria cultura. In genere non usano l’elettricità e non possono guidare mezzi motorizzati.
Anche il rapporto con la medicina moderna è controverso. Normalmente si curano in casa, ma se un Amish sta veramente male, allora la comunità decide di portarlo in ospedale.
La formazione dei giovani avviene in parte a scuola e in parte dentro la comunità. La vita degli adepti è segnata da un evento particolarmente importante: i giovani dopo i 16 anni entrano nella fase del ‘rumspringa’, durante il quale lasciano le loro case per andare a scoprire il mondo che li circonda. Alla fine del ‘rumspringa’, i giovani sono liberi di decidere se tornare o meno nella comunità.
In una comunità degli Amish americana è stato ambientato il famoso film ‘Witness – il Testimone’, con Harrison Ford e Kelly McGillis, di Peter Weir.
Chi non rimane incuriosito quando sente parlare di Amish; difficile non rimanere increduli sapendo che il tempo, nei loro villaggi, si è letteralmente fermato ed è proprio così come appare proprio nel film suddetto.
Tuttavia, gli Amish hanno un rapporto problematico con il governo statunitense in quanto, per le loro convezioni religiose, rifiutano di iscriversi al servizio di leva e di prestare giuramento, non possono studiare oltre l’ottavo grado del sistema scolastico degli USA e per tradizione impongono ai bambini di lavorare con i genitori. Ciò nonostante, rappresentano una realtà di rilievo sia dal punto di vista numerico che culturale negli Stati Uniti, e il loro stile di vita “alternativo” è sicuramente qualcosa che, al giorno d’oggi, porta a riflettere.
Una storia di “scarpèlle” (o “pèttele”) natalizie.
Le “pèttele” sono, in alcune parti della Puglia centro meridionale, le frittelle natalizie che in dialetto tarnuése [poggioimperialese] vengono chiamate “scarpèlle”, e vengono preparate con farina, acqua, lievito e sale in una consistenza morbida e poi, dopo la lievitazione, fritte in abbondante olio di oliva.
Una vera bontà. E non è Natale se la sera della vigilia non si consumano le scarpèlle, che possono tranquillamente sostituire il pane.
Le scarpèlle potrebbero probabilmente discendere proprio dalle pèttele ed essere state portate a Tarranòve [Poggio Imperiale] dai pugliesi centro – meridionali che qui si sono nel tempo trasferiti.
Ed è proprio da quelle parti che prende corpo la storia che sto per raccontare.
Si racconta che, durante la transumanza, quando i pastori d’Abruzzo con le loro greggi scendevano in terra pugliese, muniti di zampogne, ciaramelle e cornamuse, suonavano per i vicoli della città di Taranto regalando, durante la loro questua itinerante, dolci melodie in cambio di cibo.
Il cibo che i tarantini donavano ai pastori era un prodotto povero e semplice, come loro del resto, ma allo stesso tempo gustoso e nutriente.
Erano delle frittelle di pasta di pane, le famose pèttele.
Il 22 novembre si festeggia Santa Cecilia: una data molto importante per Taranto, che in concomitanza con questa ricorrenza religiosa, inaugura il periodo delle festività natalizie.
Per Taranto e per i tarantini inizia l’Avvento, in anticipo rispetto a tutti gli altri calendari, che lo fanno iniziare dall’Immacolata o da Santa Lucia”.
Un’antica leggenda narra che: << Il giorno di Santa Cecilia, una donna si alzò come di consueto, per preparare l’impasto per il pane. Mentre l’impasto lievitava sentì un suono di ciaramelle, si affacciò e vide gli zampognari che arrivavano. Come ipnotizzata da quella melodia scese per strada e si mise a seguire gli zampognari per i vicoli della città. Quando tornò a casa si accorse che l’impasto era lievitato troppo e non poteva più essere usato per il pane, e che nel frattempo anche i suoi figli si erano svegliati e reclamavano la loro colazione. Senza lasciarsi prendere dalla disperazione, la donna mise a scaldare dell’olio e cominciò a friggere dei pezzettini di pasta che nell’olio diventavano palline gonfie e dorate che piacquero molto ai suoi figli, che con la loro tipica curiosità le chiesero: “Mà, come si chiaman’?”- e lei pensando che somigliavano alla focaccia ( in dialetto detta “pitta”) rispose: “pettel'” (ossia piccole focacce). Non ancora soddisfatti i figli chiesero: “E ‘cce sont?” – e lei vedendo che erano molto soffici rispose: “l’ cuscin’ du Bambinell” (i guanciali di Gesù Bambino). Quando finì di friggere tutto l’impasto, scese per strada coi suoi bambini, felici e satolli per offrire le pettole agli zampognari che con la melodia delle loro pastorali avevano reso possibile quel miracolo>>.
Il racconto è tratto dal libro di Lorenzo Bove “Ddummànne a l’acquarúle se l’acqu’è fréscijche” – Detti, motti, proverbi e modi di dire Tarnuíse, Edizioni Del Poggio, pagine 103, 104 e 105.
La Muta di Raffaello
Un giro nel centro storico di Urbino consente al visitatore di tuffarsi in un clima “rinascimentale”, in un dedalo di strade stradine, in salita e discesa, che offrono allo sguardo affascinanti scorci architettonici di un tempo lontano.
I famosi “torricini” del Palazzo Ducale, la casa natale di Raffaello, Chiese, Palazzi, piazze, monumenti, e che dire dell’antichissima Università, che rappresenta il fulcro della odierna vitalità cittadina.
Tornare a Urbino, ogni tanto, è sempre un piacere ed interessante è anche tornare ad ammirare le inestimabili opere esposte nella Galleria Nazionale nell’interno del Palazzo Ducale.
Quest’ultima volta mi sono particolarmente soffermato ad ammirare, tra le innumerevoli bellezze, uno dei capolavori di Raffaello: “La Muta”.
Il “Ritratto di gentildonna”, noto anche come “La Muta”, è un dipinto a olio su tavola (64×48 cm) di Raffaello Sanzio, databile al 1507 e conservato, per l’appunto, nella Galleria Nazionale delle Marche a Urbino.
Nel famoso dipinto, gli esperti hanno tentato di ravvisare Elisabetta Gonzaga o, più verosimilmente, Giovanna Feltria, sposa di Giovanni Della Rovere o forse anche una gentile donzella fiorentina della famiglia Strozzi.
Non è infatti chiaro se l’opera, databile alla fine del periodo fiorentino dell’artista, provenga da Firenze, commissionato da una famiglia locale (magari rappresentante una Strozzi), o da Urbino, commissionato forse dai Della Rovere (e, chissà, ritraente Elisabetta Gonzaga o Giovanna Feltria).
Di proprietà degli Uffizi di Firenze, venne concessa nel 1927 al museo di Urbino per completare il suo percorso espositivo con almeno un’opera significativa di Raffaello Sanzio, nativo di Urbino e molto attivo anche nella sua città: tutti i dipinti di Raffaello erano infatti finiti a Firenze con l’eredità di Vittoria Della Rovere, nel XVII secolo.
L’opera venne trafugata il 6 febbraio del 1975, insieme alla “Madonna di Senigallia” e alla “Flagellazione di Cristo” di Piero della Francesca: tutte le opere, compresa “La Muta”, vennero poi recuperate dai Carabinieri, a Locarno, lo stesso anno.
“La Muta” è una donna ritratta a mezza figura leggermente di tre quarti, voltata verso sinistra, su uno sfondo scuro uniforme.
L’opera mostra una forte ispirazione leonardesca (Leonardo Da Vinci), con una posa simile a quella della “Gioconda”, ma se ne distacca per una definizione più netta dei lineamenti fisici e dell’abbigliamento.
Originale è il dettaglio della mani appoggiate sul bordo inferiore, come se combaciasse con un ipotetico parapetto, colte in un gesto inquieto, che tradisce l’ispirazione fiamminga.
La determinazione espressiva del personaggio è molto intensa e ne fa uno dei migliori esempi della ritrattistica raffaellesca nel periodo della prima maturità.
Raffaello Sanzio nacque ad Urbino nel 1483 e morì a Roma nel 1520 ed è stato un pittore e architetto tra i più celebri del Rinascimento italiano.
Il suo corpo giace, nientemeno, all’interno del “Pantheon” a Roma e sulla sua tomba è riportato il seguente epitaffio: “Ille hic est Raphael timuit quo sospite vinci, rerum magna parens et moriente mori” (Qui giace Raffaello: da lui, quando visse, la natura temette d’essere vinta, ora che egli è morto, teme di morire). E’ un omaggio di Pietro Bembo alla creatività divina del grande Urbinate.
Urbino, che è un comune italiano di oltre 15.000 abitanti, capoluogo con Pesaro della provincia di Pesaro e Urbino nelle Marche, fu uno dei centri più importanti del Rinascimento italiano, di cui ancora oggi conserva appieno l’eredità architettonica, e dal 1998 il suo “centro storico” è patrimonio dell’umanità UNESCO.
Il territorio comunale si estende prevalentemente in area collinare, sulle ultime propaggini dell’Appennino settentrionale, Appennino tosco-romagnolo, nella zona meridionale del Montefeltro.
L’Università degli studi di Urbino “Carlo Bo” è una delle più antiche d’Italia e vanta una storia cinquecentenaria, che conferisce all’Ateneo un prestigio e un’eredità di tutto rilievo.
Il gruppo “Amici di Tarranove” della Lombardia
Abbiamo cominciato qualche anno fa con la promessa di vederci … su a Milano … al rientro dopo le vacanze, magari per una pizza, e pian piano, con il passare del tempo, gli incontri sono divenuti un appuntamento rituale ed il gruppo diventa sempre più numeroso.
Anche quest’anno ci siamo incontrati per trascorrere insieme una giornata all’insegna dell’amicizia.
Domenica scorsa 4 dicembre 2011, appuntamento alle ore 12,30 davanti casa del nostro carissimo compaesano Giuseppe Castellano che, unitamente alla gentile consorte Angela Fusco, rappresentano il punto di riferimento organizzativo degli incontri.
Sono loro che mantengono i contatti e si incaricano delle prenotazioni e di quant’altro necessario per la buona riuscita degli appuntamenti.
E poi, una bella colonna di macchine verso l’Agriturismo “Molino di Santa Marta” di Casterno, nei pressi di Robecco sul Naviglio, per il pranzo.
Chi siamo?
Siamo un gruppo di poggioimperialesi (in stretto dialetto: “tarnuise”) residenti in Lombardia.
Non abbiamo ancora uno “statuto” formale, ma possono far parte del Gruppo “Amici di Tarranove” soggetti rigorosamente nativi di Poggio Imperiale (“Tarranove”) con rispettive/vi consorti ed eventuale prole, anche se di altra provenienza.
Negli incontri si deve parlare prevalentemente in dialetto poggioimperialese (“tarnuese”) e mettere a fattor comune, per quanto possibile, storie, usanze, proverbi, modi di dire, ricette di piatti tipici e di dolci del nostro paese di origine.
Il pranzo è durato fino a sera e, dopo le foto di gruppo, tutti in macchina per Magenta per finire con un giro fra le bancarelle del “Mercatino di Natale” e con un … arrivederci alla prossima!!!!
Nota: nel dialetto di Poggio Imperiale la vocale “e” finale di sillaba o di parola è muta, se non accentata.
La crisi è seria!
La crisi che sta interessando la nostra bella Italia e tutta l’ Europa, a cominciare dalla Grecia, la Spagna, il Portogallo, l’Ungheria, senza escludere la Francia e anche la Germania, comincia a destare serie preoccupazioni.
Ma, a quanto pare, non é solo il Vecchio Continente a traballare, bensì il Mondo intero.
Manifesto della “Grande Crisi del ’29” negli USA
Anche grandi potenze come gli Stati Uniti d’America ed altre ancora, vivono la nostra stessa ansia.
In queste ore di affanno, ne vediamo e sentiamo di cotte e di crude.
- I guru della finanza di tutto il mondo che glissano intorno ai problemi veri e ci nascondono meschinamente la verità sugli errori commessi negli anni di vacche grasse, quando hanno spregiudicatamente munto fino all’inverosimile.
- I nostri politici di qualunque schieramento, e non solo loro, poiché anche all’estero non scherzano, che continuano con la solita tiritera sulle altrui responsabilità senza farsi l’esame di coscienza ed assumersi un briciolo di responsabilità riguardo allo sfacelo in cui ci hanno trascinati, con una politica fatta di lauti ed ingiustificati privilegi a discapito dei contribuenti sempre più vessati da inique imposizioni fiscali, di lavoratori che vedono svanire i posti di lavoro, di giovani senza futuro e senza speranza, di pensionati sempre più poveri, di tanta gente che fa fatica a sbarcare il lunario.
- La pletora dei boiardi di Stato che dirigono comparti importanti dell’economia e della finanza, delle infrastrutture e delle industrie, delle comunicazioni e del manifatturiero, dell’informazione e molto ancora, che spendono e spandono soldi pubblici al di fuori delle regole che governano i mercati.
Tanti soloni che predicano bene ma razzolano male; che stentano a dare per primi il buon esempio rinunciando a rendite e privilegi.
Mancano idee e progetti coerenti e i rimedi frettolosamente posti in essere in qualunque campo non riescono a sortire gli effetti desiderati.
Le Borse sembrano impazzite e le economie di tutti i Paesi stanno vacillando.
Altro che la grande crisi del 1929.
Qui si rischia la completa bancarotta ed un impoverimento della gente senza precedenti.
In tutto il marasma di questi giorni, tra euro si ed euro no, banca centrale europea di ultima istanza, crollo dell’eurozona e tante altre colossali panzane, ho trovato veramente interessante l’articolo di oggi di Francesco Alberoni su “Il Giornale”, che riporto qui di seguito.
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Ripartiamo da quando eravamo poveri
Siamo sicuri di capire l’attuale crisi, le sue cause e i rimedi da approntare?
La crisi finanziaria è la conseguenza del rallentamento dell’economia di tutti i Paesi occidentali, dall’Italia agli Usa fino al Giappone, davanti alla concorrenza della Cina, dell’India e delle altre economie in espansione. L’Occidente, nel corso degli ultimi secoli, ha inventato una tecnologia superiore, comprava le materie prime dal resto del mondo, le lavorava con un enorme valore aggiunto e si è arricchito. Ogni tanto qualche nazione, usando le nostre tecnologie, faceva un balzo in avanti. L’ha fatto per primo il Giappone, ma a un certo punto l’hanno fatto anche nazioni con miliardi di abitanti, con un costo della manodopera bassissimo e le industrie occidentali in poco tempo sono state messe in difficoltà. È solo a questo punto che è entrata in gioco la finanza. Le banche americane, che hanno concesso mutui a milioni di persone per comprarsi la casa, pensavano che sarebbe continuato lo sviluppo. Invece è rallentato, i loro clienti non hanno più potuto pagare e allora hanno escogitato ogni diavoleria finanziaria per sopravvivere. Ma non è detto che i clienti avranno più soldi nei prossimi anni perché le industrie chiudono e restano disoccupati. Lo Stato, per aiutare banche e lavoratori, si è indebitato a sua volta ed è iniziata anche la speculazione sulle stesse nazioni. Oggi, per ridurre i debiti, gli Stati riducono le spese, ma in questo modo la povertà aumenta. Non siamo in una bufera temporanea che passerà come sono passate le altre e non bastano misure finanziarie. Quello che incombe sull’Occidente è l’impoverimento, stiamo tornando poveri mentre ci consideravamo ricchi. Una povertà che in Italia si esprime nei disoccupati, nelle mense dei poveri, nei divorziati che tornano dai genitori, nella vendita della «nuda proprietà» per sopravvivere, nel progressivo scadimento della qualità di tutti i prodotti a parità di prezzo. Per riprenderci, dobbiamo partire dall’idea che possiamo tornare poveri come lo eravamo nel dopoguerra e che siamo in concorrenza con Paesi ad alta tecnologia e basso costo della manodopera. Per cui dobbiamo partire da capo, con tenacia, con perseveranza, ricostruire la capacità tecnologica ricercando e studiando, poi sfruttare le nicchie in cui abbiamo ancora un vantaggio, facendo qualsiasi lavoro e facendolo bene. Ma anche imparando a difenderci dal dumping dei loro prodotti e ad aver paura degli sprechi, di tutti gli sprechi.
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Come andrà a finire questa storia non è dato sapere; i segnali che recepiamo certamente non ci consentono al momento di ben sperare.
Ma la speranza è sempre l’ultima a morire!
La “cotognata” di un tempo!
Con la “cotognata” si conclude la “rassegna” delle delizie del palato della nostra terra di Capitanata che un tempo maggiormente caratterizzavano l’autunno.
La “cotognata” completa infatti la trilogia delle “narrazioni” iniziate nei miei due precedenti articoli dedicati rispettivamente al “mostocotto” e alla “mostarda” di uva”; “narrazioni” che si rifanno naturalmente ai miei ricordi d’infanzia degli anni cinquanta del secolo scorso vissuta a Poggio Imperiale in provincia di Foggia.
Ai tempi, la frutta, in genere, non faceva in tempo a maturare sugli alberi, che veniva subito intercettata e “spazzolata via”.
Le albicocche, le pesche, le mele, le pere, le susine, i fichi, le ciliegie, le prugne, ma anche i melograni, le mandorle ed i grappoli di uva rappresentavano una facile preda e godevano di attenzioni “particolari” e al tempo stesso “indesiderate” da parte dei legittimi proprietari.
Molti lo facevano magari solo per fame, considerato il periodo di ristrettezze economiche abbastanza diffuse nell’immediato dopoguerra.
E non era solo impresa di ragazzi, ma anche di persone adulte, quella di dilettarsi a fare man bassa della frutta degli alberi altrui.
Ricordo che gli alberi da frutta della nostra vigna, che si trovava a poche centinaia di metri di distanza dal paese, venivano frequentemente “ripuliti” dai soliti ignoti (o forse anche noti).
Gli unici alberi che non venivano mai toccati erano quelli di melecotogne.
In primo luogo perché la loro maturazione si protraeva oltre l’estate fino ad autunno inoltrato, ed in secondo luogo perché il loro sapore restava sempre alquanto acidulo e poco gradevole, sebbene emanassero un profumo forte ed intenso.
E quindi, man mano che si staccavano dai rami e cadevano per terra, le melecotogne venivano raccolte e conservate in ambienti asciutti e ben areati in attesa della loro completa maturazione.
A volte ci si azzardava anche a mangiarne qualcuna, non senza pentirsi di averlo fatto; il suo sapore non era infatti eccezionale.
Le melecotogne erano invece ottime se passate al forno e spolverate con lo zucchero.
Ma la loro naturale predestinazione era sicuramente quella di finire in “cotognata”.
A pezzi oppure spalmata sul pane o anche nella farcitura dei dolci tipici paesani: così gustavamo questa deliziosa leccornia.
Anche oggi è possibile rivivere quei dolci momenti, a condizione che si riesca ancora a reperire sul mercato una quantità di melecotogne sufficienti per preparare un po’ di “cotognata” in vasetti oppure a pezzi.
Magari non sono più le melecotogne di una volta, tuttavia tentar non nuoce.
Come si prepara una buona cotognata casalinga?
Cominciamo con il procurarci circa 3 Kg di melecotogne, che verranno pazientemente sbucciate e private dei torsoli, tagliando poi la polpa a fettine molto sottili.
Aggiungere lo zucchero (300 gr. circa per ogni Kg di polpa: una quantità non eccessiva di zucchero lascia più spazio al sapore intenso delle cotogne), spremervi sopra mezzo limone e lasciare macerare per tutta la notte in un capiente recipiente, mescolando ogni tanto.
Versare il composto in una pentola adeguata e far cuocere a fuoco lento per un paio d’ore, mescolando attentamente per evitare che si attacchi sul fondo.
Aiutandosi con una forchetta, schiacciare ben bene il composto in modo da renderlo il più omogeneo possibile, anche se la consistenza della “cotognata” è diversa da una normale marmellata, che si presenta invece più fluida.
Versare la “cotognata” ancora calda nei vasetti di vetro e tapparli subito con gli appositi coperchi a chiusura ermetica, indi capovolgerli e lasciare raffreddare.
Passare infine i vasetti a bagnomaria.
Opzioni:
La prima opzione consiste nel “passare” il composto, a tre quarti di cottura, al fine di ottenere una marmellata più fluida, che verrà poi ugualmente conservata nei vasetti di vetro.
La seconda opzione consiste invece nel versare il composto “passato” su di un piano di marmo preventivamente unto con olio di oliva, formando uno spessore di qualche centimetro; si lascia raffreddare e, non appena indurita, si taglia la “cotognata” a cubetti che, a piacimento, potranno essere spolverati con lo zucchero. I pezzi di cotognata vanno singolarmente avvolti in fogli di carta oleata. Ma oggi sono in commercio anche dei comodi e simpatici “pirottini” da pasticceria che possono risolvere ogni problema.
Nella “cotognata” si ritrovano la semplicità e l´esperienza antica in grado di trasformare quello che forse è uno dei più rudi frutti della terra, le melecotogne, in una prelibatezza.
Le origini del Melo Cotogno (Cydonia Oblunga), piccolo ma robusto albero appartenente alla famiglia delle Rosacee Pomoidee, sono antichissime; giunse in Italia, forse nel nostro Salento, dall´Asia minore, e subito divenne quasi un simbolo di questa terra pugliese (si ritrova persino nei decori barocchi a scalpellino, come segno distintivo del Barocco Leccese).
Cresce nelle campagne in piccole zone alluvionali, e in tempi antichi veniva coltivato come albero da ornamento nei giardini delle case padronali. I frutti sono nodosi e duri, maturano tra la fine dell´estate e l´autunno inoltrato ed hanno un sapore astringente, con un torsolo al centro e piccoli semi neri, esattamente come le mele. La cotognata veniva un tempo consumata soprattutto in inverno per difendersi dal rigore del freddo, infatti la cotognata e’ ricca di vitamine e di zucchero.
Una curiosità
Nel 1982 la Comunità Europea ha deciso che la denominazione di “marmellata” può essere attribuita solo alle marmellate a base di agrumi, mentre quelle fatte con altri tipi di frutta devono definirsi “confetture”.
Curiosa, come decisione, poiché la parola “marmellata” deriva dal portoghese “marmelo”, che vuol dire cotogno.
Il “mostocotto” di Poggio Imperiale
Il periodo della vendemmia è sicuramente quello più propizio per preparare il nostro squisito “mostocotto”.
Tradizionalmente il “mostocotto” si appronta con il mosto fresco di pigiatura dell’uva nera, ma va bene anche quello di uva bianca.
Il suo uso è molto diffuso per la preparazione dei dolci tipici della nostra tradizione locale.
Soprattutto a Natale, il “mostocotto” è indispensabile per bagnare le “nevole” e per la preparazione dei “calzoni”.
Ma non solo per questo, poiché è tale la versalità di questo succulento “nettare”, che si sposa tranquillamente con il gelato, formaggi stagionati, fragole, yogourt, macedonia di frutta e “grano dei morti” (che si prepara in occasione della ricorrenza dei morti ai primi di novembre con grano cotto, melograno e cioccolato fondente: visitare la pagina https://www.paginedipoggio.com/dblog/cerca.asp?cosa=grano+dei+morti&Cerca.x=15&Cerca.y=10 ).
Il “mostocotto” può essere gustato … semplicemente al naturale !
A Poggio Imperiale è famosa anche la “tzùrrubbètte” (forse deriva da “sorbetto”), che si prepara in occasione delle (seppur rare) nevicate.
Si raccoglie la neve (possibilmente quella che si adagia in posti incontaminati) con un cucchiaio fino a riempire un bicchiere di vetro nel quale viene versato del “mostocotto”.
In estate, invece, la “tzùrrubbètte” viene preparata con il ghiaccio finemente tritato e “mostocotto” (una sorta di granita); una squisita e dissetante bevanda.
Come si prepara il “mostocotto”?
Si fa bollire il mosto in un capiente recipiente a fuoco moderato, per il tempo necessario, fin quando il liquido assume una consistenza mielosa.
Il rapporto è di circa 1 o 2 litri di prodotto finale rispetto a 5 litri di mosto fresco; dipende innanzitutto dalla consistenza che si desidera ottenere.
Il “mostocotto” così ottenuto viene lasciato decantare e quindi raffreddare nel medesimo recipiente di cottura per qualche giorno e, successivamente, si procede al suo imbottigliamento.
Le bottiglie vanno conservate in ambienti asciutti, freschi e non soleggiati.
Il prodotto non richiede aggiunta di zuccheri, conservanti o additivi vari.
Oggi è possibile acquistare presso alcune case vinicole di San Severo il c.d. “precotto”, che consente di accorciare notevolmente i tempi di preparazione del “mostocotto”.
In mancanza del mosto necessario, è possibile – con un po’ di pazienza – fare tutto in casa.
Occorre prendere un recipiente abbastanza capiente e mettervi l’uva all’interno, indi procedere alla sua pigiatura con le mani, per far fuoriuscire il succo dagli acini. Questa operazione viene solitamente effettuata con l’ausilio di una macchina pigiatrice, ma considerato il costo della macchina e la quantità ridotta di uva è ovviamente molto più conveniente effettuarla direttamente con le mani.
Dopo la pigiatura dell’uva si prosegue con la diraspatura, che consiste nel separare dalle bucce, polpa e raspi, il succo fuoriuscito dall’uva.
Infine si filtra il mosto così ricavato con l’ausilio di un colino, per eliminare piccoli pezzi di polpa o di buccia.
A questo punto, si versa il mosto in un recipiente abbastanza capiente, evitando di riempirlo oltre la sua metà, poiché durante la cottura il liquido gonfia e si lascia bollire a lungo e lentamente, finchè il suo volume non si riduce di almeno 3/4 del volume iniziale.
Far raffreddare il “mostocotto” all’interno del recipiente e poi versalo in bottiglie di vetro ben tappate per la conservazione.
Ricordi
I miei ricordi d’infanzia degli anni cinquanta del secolo scorso si perdono nell’incanto della vendemmia, mentre correvo tra i filari del vigneto, dove tutta la famiglia e i parenti, grandi e piccini, uomini e donne, giovani e anziani, in clima festoso di sorrisi e di canto, procedevano alla raccolta dell’uva.
E ricordo, poi, la pigiatura dell’uva che veniva fatta da robusti giovanotti a piedi nudi e la fragranza inebriante del mosto che impregnava l’aria tutt’intorno.
E le donne che aspettavano il nuovo mosto con i recipienti pronti ad accoglierlo per iniziare il rito della preparazione del “mostocotto”.
Era bello vedere come si restringeva sul fuoco accanto ad un caldo e accogliente camino dove la pentola stava appesa sui ceppi accesi e il profumo si sprigionava lento, e una volta pronto, messo a riposare in dispensa.
E, poi, l’attesa. Noi bambini, non aspettavamo altro che, arrivato l’inverno, la neve facesse capolino … e … subito fuori a raccogliere con cucchiai e bicchieri i suoi fiocchi bianchi.
Poi, in casa, come per magia da una bottiglia con liquido scuro la neve si trasformava in una meravigliosa e squisita “tzùrrubbètte”.
La mostarda di uva con i vinaccioli
Una vera bontà d’altri tempi.
E’ una delizia del palato senza tuttavia rappresentare un peccato di gola.
Anzi, al contrario, è un vero toccasana per la nostra salute, proprio per la presenza dei vinaccioli.
Una marmellata genuina e squisita, senza conservanti e addensanti, ma soprattutto priva di zuccheri aggiunti.
Per la preparazione della vera mostarda di uva, quella originale, che approntavano un tempo le nostre nonne di Poggio Imperiale, in terra di Capitanata, non c’èra bisogno di ingredienti particolari; occorreva solamente dell’uva, un po’ di tempo e dell’olio di gomito. Niente altro.
La preparazione è semplicissima.
Prendete dei bei grappoli di uva bianca e nera e lavateli accuratamente, indi sgranate gli acini dai raspi eliminando quelli ammalorati.
Potete cominciare, ad esempio, con due chili e mezzo di frutta per ricavare il vostro primo vasetto di marmellata.
Aiutandovi con un coltello, tagliate a metà di acini, avendo cura di raccogliere anche il succo che ne fuoriesce.
Molte ricette prevedono a questo punto di eliminare pazientemente i vinaccioli. Niente di più sbagliato; i vinaccioli vanno lasciati. Infatti, i semi dell’uva sono ricchi di polifenoli (antiossidanti) ed è nota la proprietà anti-radicali liberi dei polifenoli. Così come molte ricette prevedono di aggiungere 400/500 grammi di zucchero per ogni chilo di uva. Anche questo è sbagliato, poiché l’uva ed il mosto che ne deriva sono già ricchi di zuccheri naturali.
Versate quindi in una capiente pentola di acciaio i chicchi d’uva con il loro succo. Accendete il fornello del gas a fuoco lento e lasciate cuocere mescolando ogni tanto con un cucchiaio di legno, per evitare che si attacchi sul fondo, fino ad ottenere una marmellata densa e omogenea.
Togliete la marmellata dal fuoco e versatela ancora bollente nei vasetti di vetro, provvedendo a tapparli immediatamente. I vasetti andranno lasciati capovolti fino al giorno successivo e quindi riposti in un luogo fresco e buio.
In mancanza possono essere conservati in frigorifero.
Se volete conservare il prodotto più a lungo, si consiglia di far bollire i vasetti a bagnomaria.
L’unicità di questa mostarda d’uva è singolare, soprattutto quando la si gusta e si sentono sotto i denti i vinaccioli, che richiamano il sapore della granella di frutta secca.
La mostarda di uva può essere spalmata sul pane, sui biscotti, ma viene utilizzata anche per la preparazione di alcuni dolci locali, quali i “calzoni” di Natale, oltre che per farcire squisite torte e crostate.
Una vera delizia è quella di accompagnare la mostarda di uva ad una fetta del nostro caciocavallo locale.
A Cerignola è famosa la “pizza sette sfoglie” (1) il cui ingrediente principe è rappresentato proprio dalla mostarda di uva.
Buona degustazione!
(1) Per approfondire, andare all’articolo “Pizza sette sfoglie di Cerignola” su questo stesso sito www.paginedipoggio.com alla pagina https://www.paginedipoggio.com/dblog/articolo.asp?articolo=92
Le bollicine del Prosecco di Conegliano-Valdobbiadene all’Eat’s Store dell’Excelsior di Milano
Eccezionale debutto alla Vetrina del Gusto dei vini dell’Azienda Agricola Conte Collalto di Susegana.
Giovedi scorso 6 ottobre 2011 hanno avuto inizio all’Eat’s Store di Milano, situato nella Galleria del Corso all’interno del complesso “Excelsior Milano”, gli appuntamenti della Vetrina del Gusto, l’originale iniziativa che ogni settimana offre ai clienti dello Store l’opportunità di incontrare i principali rappresentanti dell’eccellenza enogastronomica italiana.
Il debutto è stato affidato a gustosi accostamenti di prodotti che esprimono tutta la storia e la tradizione delle Regioni che hanno visto nascere Eat’s.
Protagonisti del primo appuntamento sono stati l’Azienda Agricola Conte Collalto di Susegana (TV) con il Prosecco DOCG di Conegliano-Valdobbiadene, i formaggi “ubriachi” della tradizione veneta nella brillante interpretazione della Casearia Carpenedo di Povegliano (TV) e una selezione di gelatine al vino di Schianchi (UD), preparate secondo una particolare lavorazione di tipo tradizionale.
Grazie alla straordinaria varietà di flora e fauna che ne caratterizzano la proprietà, l’Azienda Collalto costituisce indubbiamente un’oasi ecologica senza pari tra gli ecosistemi dell’Italia settentrionale. I 150 ettari di vigneto armoniosamente alternati a splendidi alberi secolari di ulivi sono circondati dai boschi, prati, e grandi pascoli dove regnano indisturbati bovini, cavalli, asini, beccacce, fagiani, lepri e caprioli.
I vigneti dell’Azienda Vinicola Collalto producono attualmente circa 850.000 bottiglie, di cui 550.000 di Prosecco D.O.C.G. L’Azienda Agricola Conte Collalto e la sua Cantina costituiscono una realtà profondamente radicata nel territorio. Proprio dalla solida conoscenza della tradizione enologica del territorio e dal confronto quotidiano con le genti del luogo, infatti, l’Azienda ha tratto i suoi principi qualitativi e la tensione costante ad affinare le caratteristiche dei prodotti, sia investendo nell’ampliamento e nel reimpianto dei vigneti, sia nell’uso di tecniche di lavorazione con rese più basse, ma di alta qualità, e nella selezione delle uve.
Il risultato è percepibile nei vini Conte Collalto e, in particolar modo, nell’eleganza discreta e nella superba bevibilità delle quattro tipologie di Conegliano- Valdobbiadene Prosecco Superiore DOCG. Spumanti di ottima qualità, espressioni colte, ma al tempo stesso autentiche e accessibili di una terra e di un popolo di grandi intenditori di vini.
I vini “Collalto”
I vini da vitigni internazionali (Pinot Grigio delle Venezie, Chardonnay Colli Trevigiani, Piave Merlot, Piave Cabernet); i vini da vitigni autoctoni (Verdisio Colli Trevigiani, Wildbacher Colli Trevigiani); i vini da vitigni “Incrocio Manzoni” (Collalto Rosè, Rosabianco Manzoni Rosa 1 – 50 Colli Trevigiani, Manzoni Bianco Colli Trevigiani, Incrocio Manzoni 2.15 Colli Trevigiani); il Prosecco (Conegliano Valdobbiadene Prosecco Superiore D.O.C.G. Spumante Brut, Conegliano Valdobbiadene Prosecco Superiore D.O.C.G. Spumante Extra Dry, Conegliano Valdobbiadene Prosecco Superiore D.O.C.G. Spumante Dry Millesimato, Conegliano Valdobbiadene Prosecco D.O.C.G. Frizzante); le etichette storiche dei vini maturati in botti grandi e barriques di rovere francese (Schenella I Colli di Conegliano Bianco aromatico, Vinciguerra I Colli di Conegliano Rosso tipico, Rambaldo VIII Colli Trevigiani strutturato, Torrai Piave Cabernet Riserva); il vino da dessert (Bianco Passito); la grappa (Grappa dei Poderi Collalto).
L’olio “Collalto”
Il fragrante olio extra vergine di oliva “Collalto Olio extra vergine di oliva”
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La Vetrina del Gusto
L’organizzazione della Vetrina del Gusto è strutturata per affiancare rappresentanti del mondo food e del mondo wine secondo accostamenti studiati per affinità, per comuni richiami al territorio o per suggerire inedite e stimolanti modalità di degustazione. Gli incontri continuano il giovedì con la formula del doppio appuntamento: tarda mattinata (indicativamente dalle 11.00 alle 14.00) e serata (17.30 – 20.30).
- Eat’s
Nato da un’idea dell’imprenditore veneto Sergio Menegazzo, del Gruppo Canzian-Menegazzo, Eat’s è un innovativo food store che propone un nuovo modo di fare la spesa, abbinando ad un’accurata selezione di eccellenze agroalimentari, dallo scaffale alle isole del fresco, una ricca cantina dotata di Dwine con adiacente bistrò e wine bar. Prodotti pregiati e circa 1.300 etichette. Sono esposti da Eat’s, la boutique gourmet di più di 1000 metri quadrati inaugurata l’8 settembre 2011 all’Excelsior di Galleria del Corso a Milano, secondo punto vendita dopo Conegliano. Una lunga giornata, dalla prima colazione all’Excelsior Cafè al piano terra, dehors sulle 2 gallerie (del Corso e Passarella), all’acquisto di specialità nel food store al sottopiano 1, alla degustazione di cibi al Bistrò, al sottopiano 2 (fino all’una di notte), preparati dal 28enne executive chef Matteo Gelmini, che arriva dal ristorante milanese Food Art- Matteo Torretta
- Excelsior Milano
L’Excelsior rappresenta un’esperienza unica di shopping, ove fashion, beauty, accessori, food e design si mescolano nello storico building di Galleria del Corso 4, nel cuore di Milano, completamente ristrutturato dall’acclamata archistar Jean Nouvel. Un contenitore di 4000 mq in un volume unico, diviso in 7 piani, racchiuso in un involucro architettonico avvolto da stripe di installazioni video dall’effetto caleidoscopico, con una trama di ascensori galleggianti e nastri trasportatori. È così che l’ex cinema milanese Excelsior ascende a nuova icona dello shopping world wide.
Le informazioni sono tratte da siti internet che hanno trattato gli argomenti sintetizzati nel presente articolo nonché dalla documentazione divulgativa dell’Azienda Agricola Collalto, via 24 maggio n. 1 31058 Susegana (TV) www.cantine-collalto.it
Foto di repertorio di Lorenzo Bove
Angelo Scola, il prescelto!
Il nuovo Arcivescovo di Milano sarà il futuro papa?
Si è parlato nei giorni scorsi di (possibili) dimissioni dell’attuale papa in primavera del prossimo anno, in occasione del suo ottantacinquesimo compleanno, anche se le voci non hanno poi trovato riscontri e conferme ufficiali presso la Santa Sede.
Ma c’è forse qualche attinenza con la recente nomina dell’ex Patriarca di Venezia Angelo Scola ad Arcivescovo di Milano?
Sicuramente si tratta di una nomina ricca di significati; una scelta pastorale forte, visto il carisma del porporato, la sua visibilità internazionale, la fama di teologo, la discreta ma costante inclusione del suo nome tra i Cardinali “papabili”.
Una designazione che peserà sugli equilibri della Chiesa italiana, e non solo, soprattutto perché è il frutto di una scelta di Benedetto XVI, che ha consultato tutti e imposto alla Curia di seguire le procedure canoniche, ma poi ha deciso da solo.
Una nomina di grande spessore, e molti ritengono di poter annoverare il nome del nuovo Arcivescovo che si è insediato in quella che fu la Cattedra di Ambrogio, fra i “papabili” più autorevoli, visto che Milano ha dato nel passato secolo due Pontefici: Achille Ratti (Pio XI) e Giovanni Battista Montini (Paolo VI).
Ma, al di là di tutto, una sfida comunque difficile, nella Diocesi più grande del mondo.
La scorsa domenica 25 settembre l’abbraccio di Milano ad Angelo Scola, il suo nuovo Vescovo.
Alle ore 16 è giunto nella basilica di Sant’Eustorgio, luogo carico di tradizione simbolica e porta d’ingresso per la prima entrata in città di tutti i vescovi ambrosiani: è il più antico luogo di culto cristiano di Milano, quello dei primi battesimi, dei primi martiri e della loro sepoltura.
Scola e il corteo che lo accompagnava ha poi ripreso l’itinerario che lo ha portato in Piazza Duomo intorno alle 16.45 ove, ad aspettarlo davanti alla Cattedrale milanese, c’era il suo predecessore Cardinale Emerito Dionigi Tettamanzi, con il quale ha fatto solenne ingresso in Duomo, dopo che quest’ultimo gli aveva lasciato il bastone pastorale di San Carlo e che da secoli si tramanda da un vescovo all’altro e che rappresenta il passaggio di consegne alla guida della Chiesa ambrosiana.
Angelo Scola aveva iniziato il suo viaggio di avvicinamento a Milano partendo alle 14.00 da Malgrate, suo paese natale a pochi chilometri da Lecco. E il primo momento di preghiera e riflessione personale sul compito che lo aspetta è avvenuto già lì, nella chiesa parrocchiale di San Leonardo in cui fu battezzato e dove il parroco don Luciano Capra – suo futuro segretario particolare – l’ha accolto insieme con le autorità locali. In chiesa i nipotini e i parenti. Il successivo momento di solitudine e raccoglimento se lo è riservato subito dopo, nel piccolo cimitero, proprio di fronte alla chiesa, dove sono sepolti i suoi genitori e suo fratello.
La liturgia in Duomo ha avuto inizio con la lettura della lettera con cui il pontefice ha nominato Angelo Scola nuovo Arcivescovo di Milano, a cui ha fatto seguito il saluto ufficiale di Tettamanzi.
Quindi Scola si è seduto sulla cattedra arcivescovile per ricevere il saluto dell’Arciprete della Cattedrale e di alcuni rappresentanti del clero, dei religiosi, dei laici della diocesi.
La Messa si è conclusa con la benedizione, impartita dal Duomo all’intera Arcidiocesi.
Poi, mentre la processione dei Vescovi ritornava in sacrestia, l’Arcivescovo si è trattenuto davanti all’altare maggiore per salutare autorità e Consiglio delle Chiese Cristiane di Milano; quindi ha percorso la navata centrale per un ulteriore saluto ai numerosi fedeli assiepati all’esterno, dal sagrato del Duomo.
«Un uomo di grande cultura, di molteplice esperienza, di forte passione ecclesiale», ha detto Tettamanzi di Scola annunciandone la nomina a Milano.
Il Pastore, l’Educatore, il Teologo, l’Intellettuale. Il Vescovo di Grosseto. Il Rettore della Lateranense. Il Patriarca di Venezia. Ora, l’Arcivescovo di Milano. Sulla Cattedra di Ambrogio e di Carlo, con il motto che lo guiderà anche nella nuova sede: “Sufficit gratia tua”.