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24
Ott

Ma è proprio americana la festa di “Halloween”?

Ogni anno, da qualche tempo, con l’avvicinarsi delle festività di novembre di “ Ognissanti” e della “Commemorazione dei Defunti”, che si celebrano rispettivamente l’uno e il due di novembre, si accendono dibattiti e soprattutto sorgono polemiche sulla festa di “Halloween” che ha ormai, a quanto pare, contagiato anche le nostre giovani generazioni sull’intero territorio nazionale.

La più recente tradizione vuole che i bambini, travestiti da streghe, zombie, fantasmi e vampiri, la sera (o anche la notte) del 31 ottobre bussino alle porte urlando con tono minaccioso: "Dolcetto o scherzetto” ?

Le vetrine dei negozi si riempiono di costumi per ogni tipo di travestimento e dolciumi vari oltre che di zucche svuotate e intagliate con volti minacciosi, pronte per porvi una candela accesa all’interno.

Tanti scherzi, tanta allegria.  

“Proprio come negli Stati Uniti d’America”, dice la gente, criticando l’affare commerciale che si è venuto ad insidiare anche qui da noi, a maggior ragione in un contesto religioso di massimo rilievo per la Chiesa Cattolica, che dedica per l’appunto i primi due giorni di novembre a tutti i santi e a tutti i morti.

Ma è veramente tutta americana la festa di “Halloween”?

Personalmente nutro al riguardo seri dubbi, tant’è che già nel mio libro “Ddummànne a l’acquarùle se l’acqu’è fréscijche – Detti, motti, proverbi e modi di dire Tarnùise” – Edizioni del Poggio, ho avuto modo di affrontare lo specifico tema, riportando fedelmente alcune usanze paesane di un tempo in occasione della ricorrenza della Commemorazione dei Defunti, di cui trascrivo uno stralcio.

Un’altra usanza tarnuése, che interessava per lo più i bambini, prendeva corso in occasione della ricorrenza dei Morti quando, con lunghe calze di cotone pesante sulle spalle, essi facevano il giro delle case dei parenti e conoscenti per raccogliere doni propiziatori rappresentati da melecotogne, melagrane, fichi secchi, mandorle, ecc. Anch’essi avevano un ritornello che caratterizzava il loro giro di questua, che faceva così:

Ceciòtte, ceciòtte

A l’aneme d’i mòrte

Ceciuttèlle, ceciuttèlle

A l’àneme d’i murtecèlle

(Lacrime, lacrime per le anime dei morti…lacrimucce, lacrimucce per le anime dei morticini)”.

 Ma vi è di più; la sera precedente i bambini appendevano la calza alla porta della loro casa affinchè i “cari defunti” potessero durante la notte riempirla di doni (che erano poi sempre melecotogne, melagrane, fichi secchi, mandorle, ecc. per quelli bravi e carbone per i più cattivi).

Dunque, anche all’epoca a Poggio Imperiale l’evento veniva accolto in allegria e  con i defunti si stabiliva, in un certo senso, un contatto quasi fisico, amplificando i toni della festa e sdrammatizzando il concetto della morte.

La festa di “Halloween” rappresenta un’usanza tipicamente statunitense, ma probabilmente deriva da tradizioni importate da immigrati europei.

La presenza nella cultura contadina di zucche svuotate o, più spesso in Europa, di fantocci rappresentanti streghe e di rape vuote illuminate, è documentato anche in alcune località del Piemonte, della Campania, del Friuli, dell’Emilia-Romagna, dell’alto Lazio e della Toscana.

Anche in varie località della Sardegna la notte della Commemorazione dei Defunti si svolgono riti che hanno strette similitudini con la tipica festa di “Halloween” d’ oltreoceano. A Pattada si incidono le zucche e all’ interno viene accesa una candela, mentre in altri paesi si svolge il rito delle "Is Animeddas" (Le Streghe), del "Su bene ‘e is animas", o del “su mortu mortu”, dove i bambini travestiti bussano alle porte chiedendo doni.

Con riguardo quindi alle origini americane della festa di “Halloween”, è forse vero l’esatto contrario, nel senso che negli Stati Uniti inizialmente si trattava di festeggiamenti legati alle diverse tradizioni riferite alla ricorrenza di “Ognissanti”, le cui caratteristiche discendevano dalle culture degli immigrati e alla fede religiosa personale, fino ad arrivare alle moderne celebrazioni che sono poi rimbalzate (forse con caratteristiche un tantino più consumistiche) in Europa ed anche in Italia.

 

P.S. I bambini statunitensi, durante la festa di “Halloween”, travestiti da streghe, zombie, fantasmi e vampiri, bussano alle porte urlando con tono minaccioso: “Trick or treat" (trick = scherzo; treat = piacere, godimento). Per allontanare la sfortuna è necessario bussare a 13 porte diverse. “Trick or treat “ riporta alla mente i famosi “tric trac” (o trikke trakke), una sorta di mortaretti che un tempo venivano incendiati e fatti esplodere in occasioni festose.

Chissà se la denominazione dei “tric trac” è da farsi risalire proprio al detto “trick or treat “. 

21
Ott

YAD VASHEM IL MUSEO DELL’OLOCAUSTO DI GERUSALEMME: la didascalia contestata.

Si parla ancora in questi giorni dei “silenzi” di Papa Pacelli e della ormai famosa didascalia contestata presso il Museo dell’Olocausto di Gerusalemme.

Ho personalmente avuto l’opportunità di visitare in primavera dello scorso anno lo Yad Vashem, il Museo dell’Olocausto di Gerusalemme, durante il mio viaggio in Terra Santa con mia moglie.

Una visita che meritava proprio quel pomeriggio di riflessione.

Tante foto, documenti, lettere, indumenti di ogni tipo, ricostruzione fedele di campi di concentramento e di tradotte (treni) militari, libri, oggetti personali dei deportati, ecc.

Lo Yad Vashem è il memoriale dei sei milioni di ebrei deportati e uccisi dai nazisti.

Una cosa davvero toccante, che ti lascia dentro un senso di pietà e di impotenza al tempo stesso, ma che ti scatena anche sentimenti di rabbia per tutto quanto è potuto accadere.

Ogni anno allo Yad Vashem viene celebrata una cerimonia ufficiale nella quale lo Stato di Israele e il popolo ebraico si uniscono nella memoria delle vittime dell’Olocausto.

Un luogo sacro da visitare in silenzio e senza alcuna fretta per prendere consapevolezza di un dramma di immane portata.

Tuttavia, dal magnifico componimento di ricostruzione storico – politica degli eventi, echeggia una lieve stonatura che ha peraltro da tempo generato un certo attrito diplomatico tra Israele e Vaticano.

Si tratta di una didascalia in lingua inglese, a corredo della fotografia di papa Pio XII esposta in una delle sezioni del Museo, dalla quale traspare una personalità controversa in relazione al comportamento di Papa Pacelli dinanzi al genocidio nazista degli ebrei.

In particolare, nella didascalia contestata, su Pio XII si legge, tra l’altro, che “eletto Papa nel 1939, mise da parte una lettera contro l’antisemitismo e il razzismo preparata dal suo predecessore” e che “anche quando i resoconti sulle stragi raggiunsero il Vaticano, non reagì con proteste scritte e verbali”.

In effetti, andare allo Yad Vashem e vedere Pio XII così presentato non è proprio una bella cosa.

 La foto di Pio XII è stata esposta per la prima volta con l’apertura del nuovo museo Yad Vashem nel 2005 e già allora il Nunzio Apostolico della Santa Sede aveva chiesto che la didascalia venisse opportunamente modificata.

Lo Yad Vashem aveva risposto che sarebbe stato lieto di esaminare il comportamento di Pio XII durante l’Olocausto se il Vaticano avesse acconsentito ad aprire i suoi archivi segreti, relativamente al periodo della seconda guerra mondiale, ai ricercatori del museo.

Nathan Ben Horin, ex commissario allo Yad Vashem per la nomina dei “giusti” italiani, alla veneranda età di 88 anni sostiene sul Corriere della Sera del 20 ottobre 2008 che “non è il momento di giudicare Pio XII. Non ancora…Pio XII è stato Papa in una situazione estremamente dolorosa e delicata. Dire cosa fosse giusto fare è prematuro. Ci vuole equilibrio”. E, con riferimento alla didascalia, lo stesso ex commissario è del parere che si potrebbero usare toni meno netti poiché “i silenzi di Pio XII sono storia. Ma è storia anche che molti ebrei sfuggirono ai nazisti nascosti nei conventi e all’interno del Vaticano, certamente non all’insaputa del Papa”.

A questo punto dobbiamo augurarci solamente che la polemica venga quanto prima smorzata. 

14
Ott

A proposito di San Placido Martire

La Chiesa Matrice di Poggio Imperiale è dedicata a San Placido in omaggio al Principe Placido Imperiale fondatore del paese.

E fu lo stesso Principe Placido Imperiale, persona molto influente alla Corte di Napoli, a commissionare e donare, nella seconda metà del settecento, una tela rappresentante San Placido, per testimoniare la sua devozione al Santo e trasmettere il culto ai suoi coloni.

L’opera venne commissionata personalmente a Francesco De Mura che già lavorava all’Annunziatella a Napoli. La tela, di inestimabile valore, è stata recentemente restaurata e raffigura San Placido in ginocchio che prega la Madonna con Gesù Bambino in braccio mentre, dal basso, un putto gli offre un ostensorio.

Nella Chiesa Matrice di Poggio Imperiale vi è dunque una delle più belle tele di arte barocca della Capitanata di notevole importanza artistica ed economica.

Per maggiori dettagli si rimanda alla lettura del recente libro di Alfonso Chiaromonte “San Placido Martire” Patrono di Poggio Imperiale – Edizioni del Poggio, 2008.

 

13
Ott

Un’atmosfera d’altri tempi!

In un magnifico scenario di luci scintillanti e di fuochi d’artificio, nelle giornate di domenica 5 e lunedi 6 ottobre si sono svolti a Poggio Imperiale i festeggiamenti del Santo Patrono San Placido Martire.

 

 

Grande la partecipazione popolare alle funzioni religiose, che hanno raggiunto il loro apice con la celebrazione della messa solenne celebrata dal Parroco Don Luca De Rosa alle ore 10,30 di domenica nella Chiesa Matrice, che porta il nome del Santo Patrono e per l’occasione addobbata a festa, alla quale è poi seguita la processione dei simulacri di San Placido Martire e di San Michele Arcangelo per le vie del paese, accompagnata dalla Banda musicale e dalle autorità civili, militari e religiose, tra canti sacri e preghiere, in un incalzare di fuochi di artificio in onore dei due Santi lungo tutto il percorso, nei vari rioni del paese, con le coperte più belle esposte ai balconi delle case, fra nastri bianchi e rossi ed icone del santo Patrono.

Un’atmosfera davvero magica tra il fumo dei mortaretti e l’odore acre dei fuochi, fino al ritorno dei Santi in Chiesa dopo circa tre ore di processione.

In serata, Concerto Bandistico “Città di Manfredonia” in piazza Imperiale con brani di opera lirica brillantemente interpretati da cantanti di musica classica sotto le luci delle luminarie e della “Cassa Armonica” appositamente allestita.

La serata di lunedi è stata invece dedicata alla musica leggera con un Concerto dei, sempre bravi, “Nuovi Angeli”.

I festeggiamenti si sono conclusi con un entusiasmante spettacolo di fuochi pirotecnici all’interno dello Stadio comunale.

 

 

Sensazioni?

Davvero un’atmosfera d’altri tempi! Una dimostrazione di forte attaccamento alle radici e alle tradizioni della propria terra.

Ma quello che più colpisce e che, per certi versi, lascia ben sperare per il futuro, è la folta presenza di giovani e di giovani coppie con relativi bambini.

In un’epoca di diffuso relativismo in cui ci si lascia portare qua e là da qualsiasi vento, vivere la propria cultura significa riscoprire la tradizione che trasmette valori su cui costruire la propria identità.

E, nel mondo moderno, ne abbiamo veramente bisogno!

29
Set

Radici e tradizioni nell’era della globalizzazione

“Tutti sono convinti che la globalizzazione aumenti la cultura, la conoscenza, la creatività, ma non è detto che sia vero, perché essa distrugge anche le culture, le tradizioni, le lingue, le letterature locali. Ancora nel secolo scorso in Italia c’erano scrittori, poeti e cantanti milanesi, genovesi, romani, napoletani amati e ammirati nel loro ambiente. E c’erano migliaia di laboratori artigianali, boutiques in cui trovavi degli stupendi prodotti artigianali. Oggi dovunque tu vada – a Milano, a Firenze, a Saint-Tropez, a Tokio, a Manila, a New York – trovi gli stessi vestiti, lo stesso gusto. Nelle librerie gli stessi libri, nei cinema gli stessi film, nelle televisioni gli stessi format, e senti discutere le stesse idee…". 

Così scrive Francesco Alberoni lunedi 8 settembre 2008, in prima pagina, sul Corriere della Sera, concludendo, poi, che “Per tener viva la diversità culturale e conservare accesa la creatività bisogna che ciascuno partecipi e competa nel sistema di comunicazione globale, ma nello stesso tempo ogni nazione, ogni popolo, ogni città deve conservare le sue radici, la sua lingua, la sua tradizione e farle fiorire. Non dobbiamo aver paura di essere diversi, di rifiutare il tipo di arte, di cinema, di libri, di spettacoli televisivi ammirati da tutti. Dobbiamo imparare a giudicare e a scegliere con la nostra testa, e sforzarci di realizzare solo cose che consideriamo veramente belle e di valore. Certo, agire così richiede uno sforzo individuale molto più grande, ma è l’unico modo per tenerci fuori dal gregge e poter dare anche noi un contributo utile”.

Ebbene, il mio libro dal titolo insolito “Ddummànne a l’acquarùle se l’acqu’è fréscijche” – Detti, motti, proverbi e modi di dire “Tarnuìse” (poggioimperialesi) – Edizioni del Poggio, intende offrire, nel suo piccolo, l’opportunità di fermare il tempo sulle origini di una piccola comunità (Poggio Imperiale in provincia di Foggia) e immortalare in modo indelebile le sue immagini.

Un lavoro che si prefigge lo scopo di lasciare traccia del linguaggio e delle espressioni di un tempo che non c’è più, ma che rappresenta un prezioso patrimonio da non disperdere, per fornire soprattutto alle giovani generazioni testimonianza di una tradizione che deve necessariamente sopravvivere, poiché non ci può essere futuro senza memoria.

I detti, motti, proverbi e modi di dire rappresentano una sorta di banca dati ove poter attingere informazioni e ricercare le fondamenta di una civiltà, di un popolo, di una comunità.

Non costa nulla chiedersi che cosa le tradizioni ci hanno insegnato e quindi in questo lavoro vengono analizzati, in particolare, i detti, motti, proverbi e modi di dire dei tarnùise, che rappresentano uno spaccato della vita degli abitanti di Poggio Imperiale di un tempo.

I nostri detti, motti, proverbi e modi di dire rivelano un linguaggio semplice, che si traduce in quelle mille forme che rappresentano la vita nel suo molteplice manifestarsi.

Una rappresentazione della saggezza della nostra terra che si alimenta alla fonte dei ricordi e tiene sempre viva la fiamma del sentimento che sorregge il culto del passato.

La locuzione “Ddummànne a l’acquarúle se l’acqu’è fréscijche”, che è anche il titolo del libro, vuole pertanto essere semplicemente un pretesto per introdurre il lettore in un’atmosfera di ricordi di un mondo che non c’è più:

– un mondo magico fatto di cunde (racconti), di storie infinite che affascinavano adulti e bambini au frìiscijche ‘nnanz’i porte (al fresco fuori dalle proprie case), nelle calde serate d’estate illuminate dal chiaro di luna, o intorno ai camini scoppiettanti o ai vrascére (bracieri) nelle fredde serate invernali, quando le strade erano appena illuminate dalla flebile luce notturna e ai ragazzi veniva proibito di uscire di casa perché (sulla base di una fantastica diceria popolare) circolava minaccioso u pumpenàre (il lupo mannaro);

– un mondo magico fatto di giochi di gruppo all’aperto “attingolò”, “a cavalle lónghe”, “a nnammùcciùne”, “a mazzapívete”, “a gnàgnele…ticte, tacte e palùmme”, riservati per lo più ai soli ragazzi, mentre le ragazze giocavano a “zanchètte” od altro; ma anche di giochi collettivi, tipo “sèggija ferrìzze, sèggija ferrìzze, chi c’jàveze e chi ce ‘mbìzze”, improvvisati in occasione di feste come “Carnuàle” (Carnevale), “parendàte” (feste di fidanzamento), “spusalìzije” (feste di matrimonio), ecc.;

– un mondo magico fatto di profumi della nostra terra e di sapori dei nostri cibi;

– un mondo magico fatto di cummèdije (acquiloni) che si libravano nell’aria sospinti dalla leggera brezza primaverile che spazzava via le nuvole e accendeva di azzurro il cielo tarnuése, nell’incantesimo degli sguardi dei ragazzi che correvano srotolando il loro gliòmmere (gomitolo) di vammàce (cotone grezzo usato solitamente per confezionare calzettoni pesanti dei contadini).

“Ddummànne a l’acquarúle se l’acqu’è fréscijche” è un modo di dire che rappresenta, forse più di tutti gli altri, la quintessenza del modo di essere e dell’indole di noialtri poggimperialesi (tarnuíse), poiché raccoglie in poche parole il senso della più intima natura del temperamento di una comunità unica, se vogliamo, nel suo genere.

Una comunità semplice ma determinata nel raggiungimento degli obiettivi che si è prefissata di conseguire.
Una comunità che, per le note vicissitudini, ha dovuto lottare per la propria affermazione, scontrandosi con posizioni e realtà precostituite e dunque ostili al cambiamento, ma con quell’innata lealtà ed onestà intellettuale che ha sempre contraddistinto la sua azione.

Tutto questo potrebbe aver creato nel tarnuése un certo senso di diffidenza, che si manifesta attraverso quel caratteristico atteggiamento dubbioso, di sospetto, classico di chi non si fida ciecamente a prima vista e che ha bisogno di sfidare l’interlocutore per metterlo alla prova.

Ma lo fa comunque con estrema ironia e senza malizia o cattiveria. Per un tarnuése, ad esempio, è del tutto scontato che l’ortolano dirà sempre che i suoi prodotti ortofrutticoli sono freschi e che lo stesso farà il pescivendolo, anche quando i rispettivi prodotti messi in vendita non dovessero risultare propriamente tali.

E allora egli cercherà di prevenire l’eventuale fregatura ponendosi in una condizione di difesa preventiva, almeno sul piano psicologico, per evitare di passare da stupido, pronunciando battute dal sapore ironico – sarcastico nei riguardi del venditore, del tipo:“Acquarú(le)…jè fréscijche l’acque ?”, che rappresenta, per l’appunto, una vera e propria sfida ovvero una provocazione finalizzata a stimolare la reazione dell’interlocutore, che si spera sia sempre positiva.

Ma non sempre è così: a volte infatti l’interlocutore reagisce negativamente fornendo risposte a tono, anche se nella stragrande maggioranza dei casi, però, gli effetti si dimostrano invece sufficientemente apprezzabili, attraverso una maggiore attenzione e cortesia che in seguito, solitamente, viene riservata al tarnuése.

Questo è dovuto probabilmente anche al fatto che molti dei venditori ambulanti gravitanti nell’ambito del paese sono forestieri ed è un po’ come prendere le distanze per chiarire, da subito, che non ci si trova di fronte ad un allocco o ad uno sprovveduto.

“Ddummànne a l’acquarúle se l’acqu’è fréscijche”, alla lettera, significa: “ Chiedi al venditore di acqua se l’acqua è fresca”, tuttavia si tratta di un modo per rappresentare una “cosa ovvia e scontata”, come per dire che è del tutto pacifico che la risposta del “venditore di acqua” sarà positiva, nel senso che egli non dirà mai che la sua acqua non è fresca, anche di fronte all’evidenza.

Il detto è da farsi risalire al tempo in cui Poggio Imperiale era sfornito di rete idrica (e fognaria) cittadina e l’acqua potabile veniva approvvigionata direttamente presso il Pozzo comunale (da qui, via del Pozzo) ovvero acquistata da un venditore, chiamato acquarùle, che la portava in paese in barili caricati a dorso d’asino (successivamente anche con una grande botte allestita su di un carretto trainato da cavallo).

Ogni asino, attrezzato con idonea bardatura (‘a vàrde) portava quattro barili (due per parte), accompagnato a piedi da Lazzàre ‘u cecàte (Nazario Iadarola) nel percorso che conduceva dal Pozzo comunale fino all’altezza del Palazzo De Cicco, in prossimità di una delle due torrette posteriori del palazzo, in particolare di quella ubicata lato Comune, dopo aver superato il tratto della mulattiera in salita e non affatto agevole.

Presso il predetto “punto di ritrovo” i tarnuìse facevano la fila in attesa dell’acquarúle e non di rado sorgevano tra di loro liti e risse (facévane a sciàrre e ce frecàvene de botte) per la disputa delle rispettive posizioni nella fila.

Il primo della fila prendeva in mano le briglie dell’asino (‘a capézze) e “faceva strada”, precedendo l’animale da soma verso la propria abitazione per il “servizio a domicilio”, seguito da Lazzàre ‘u cecàte.

Qui i barili contenenti l’acqua potabile venivano svuotati direttamente nelle saròle, consistenti in grossi recipienti di terracotta (tipo giare con larga apertura nella parte superiore sulla quale veniva collocato un coperchio di legno). La saròle piena costituiva la provvista idrica di ogni casa e l’acqua veniva attinta con un’ apposita brocchetta in alluminio ( u secchijettélle).

La quantità di acqua richiesta all’acquarúle veniva espressa con una misura definita salma che rappresentava la capacità di acqua contenuta nei barili.

Solitamente si diceva: “Pùrteme ‘na salma d’acque”, per indicare un intero carico di quattro barili caricati a dorso dell’asino, che era sufficiente per riempire una saròle.

Si usava inoltre dire “trovare l’acqua” e più precisamente “v’a trùve l’acque” (alla lettera: vai a cercare l’acqua), indifferentemente, sia quando ci si doveva recare al Pozzo comunale, sia quando si doveva andare a far la fila dietro al Palazzo De Cicco.

Ebbene, come si è visto, da un semplice modo di dire, come “Ddummànne a l’acquarúle se l’acqu’è fréscijche”, si possono aprire scenari fantastici che consentono di immergersi con l’immaginazione in un mondo ormai trascorso, ma che ci consente di poter cogliere aspetti interessanti e sicuramente utili per il nostro futuro e quello delle future generazioni.

Il tarnuése che giovane più non è avrà l’opportunità di rinfrescare i ricordi sopiti e i giovani l’occasione per scoprire aspetti del patrimonio del passato della loro comunità poco noti.

25
Set

Eccomi!

Tra qualche giorno lascerò l’Azienda nella quale e per la quale ho fornito in questi anni il mio contributo professionale, con l’orgoglio di aver avuto l’opportunità di far parte di una grande ed importante Impresa proiettata verso un futuro di grande espansione nel mercato interno ed internazionale.

Avrò ora innanzitutto più tempo da dedicare alla mia famiglia, ma anche più spazio per i miei interessi personali…in verità un po’ trascurati.

E mi piace ripartire “virtualmente” dalle origini del mio percorso di vita; da Poggio Imperiale, un ridente paese in provincia di Foggia, nel quale sono nato, pur abitando da lungo tempo a Sesto San Giovanni in provincia di Milano.

E’ stato infatti pubblicato nello scorso mese di luglio dalle Edizioni del Poggio un mio libro dal titolo:
<< Ddummànne a l’acquarùle se l’acqu’è fréscijche >>
Detti, motti, proverbi e modi di dire “Tarnuìse” (poggioimperialesi)

Ed il Sito www.paginedipoggio.com “Pagine di Poggio Imperiale” vuole rappresentare il mio strumento operativo di comunicazione.

Un poggio, un’altura,
un dolce declivio.
Un luogo privilegiato di osservazione
sul passato, presente e futuro.
Sul mondo intero
(l.b.)

Il Blog “come la penso io” è invece una finestra aperta sugli eventi, itinerari, viaggi e su quant’altro avrò voglia e tempo di soffermare la mia osservazione.

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