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A Roma una mostra su Steno, uno dei padri della commedia all’italiana!

Martedi 11 aprile 2017 è stata inaugurata a Roma, alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, la mostra «Steno, l’arte di far ridere. C’era una volta l’Italia di Steno. E c’è ancora», che si protrarrà fino a tutto il 4 giugno p.v.
L’evento, organizzato in occasione del centenario della nascita di Stefano Vanzina , in arte “Steno”, nato il 9 gennaio 2017, rappresenta un percorso fatto di fotografie, cimeli, carteggi, testimonianze dei tanti attori con i quali ha lavorato: da Totò ad Aldo Fabrizi, da Alberto Sordi a Vittorio De Sica, dalla coppia Tognazzi-Vianello a quella Franchi-Ingrassia, da Renato Pozzetto a Diego Abatantuono, da Mariangela Melato a Monica Vitti, da Enrico Montesano a Gigi Proietti, tra i protagonisti dell’indimenticabile film cult “Febbre da Cavallo”.
Lo scorso 19 aprile, io e mia moglie abbiamo avuto l’opportunità di visitare l’originale e interessante rassegna in corso nella Capitale, non solo per amore di cultura ma anche per rivivere momenti della nostra infanzia e prima giovinezza, trascorsa a Poggio Imperiale, quando il “cinema” svolgeva, insieme alla radio, un ruolo importante di svago e forse anche di formazione-informazione. E, in tutta sincerità, le nostre aspettative non sono andate deluse; al contrario: è stato un vero tuffo nel passato denso di ricordi e di emozioni.
L’esposizione è impostata sulla base del “Diario futile”, una vera e propria opera pop in cui l’influente e prolifico regista incollava ritagli di giornale, vignette, appunti e foto dei collaboratori, e analizza la filmografia del regista, contestualizzandone il periodo storico, sociale e culturale in cui ha operato.
Sono presenti continui parallelismi con il cinema degli esordi (il cinema comico) e la nascita della “commedia all’italiana”, attraverso riviste umoristiche, come “Marc’Aurelio”, attori, sceneggiatori e registi che hanno fatto la storia del cinema italiano.
Nei “ricordi di celluloide” di Steno emergono alcuni “siparietti” molto simpatici; di questi ne ho annotato uno in particolare che voglio qui riportare. Si tratta di un episodio che si è verificato nel corso della lavorazione dell’immemorabile film “I due marescialli” con Totò e Vittorio De Sica del 1962, mentre veniva girata la famosissima scena della “carta bianca”, che vedeva Totò (finto maresciallo) in un’accesa discussione con un ufficiale tedesco delle SS. Ricorda Stefano Vanzina che … “Totò doveva rispondere: Ha carta bianca? E allora ci si pulisca il …! Si rifiutava di dire quella parola, faticai a convincerlo, finché con fatica la disse”.
Regista tra i più eclettici del panorama italiano, insieme a Monicelli, Risi e Comencini, Stefano Vanzina è da annoverare tra i padri della cosiddetta “commedia all’italiana”.
Attraverso materiale inedito di famiglia, grazie ai figli Enrico e Carlo Vanzina, con la collaborazione degli archivi Studio EL Cinecittà, Latitudine, la mostra ricostruisce la storia professionale e privata di uno dei più grandi registi italiani: dall’infanzia fino all’ultima opera cinematografica.
Steno, nome d’arte di Stefano Vanzina, nato a Roma il 19 gennaio 1917 e morto a Roma il 13 marzo 1988, è stato regista e sceneggiatore del cinema italiano, ricordato soprattutto per la sua professionalità e per l’ampia e poliedrica carriera cinematografica.
Figlio di Alberto Vanzina, giornalista del Corriere della Sera, emigrato in Argentina in gioventù e di Giulia Boggio, a tre anni rimase orfano del padre con la famiglia che versava in gravi difficoltà economiche. Completò gli studi liceali e si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza non terminando gli studi universitari (in una bacheca è esposto, tra le altre cose, anche il suo libretto universitario).
Diplomatosi scenografo all’Accademia di Belle Arti, entrò, verso la metà degli anni trenta, al Centro Sperimentale di Cinematografia e iniziò a disegnare caricature, vignette e articoli umoristici adottando lo pseudonimo di “Steno”, che utilizzerà anche al cinema tranne in due occasioni nelle quali si firmò col suo vero nome, dapprima alla Tribuna Illustrata, quindi entrando nella redazione del celebre giornale umoristico Marc’Aurelio, vera fucina di nomi in seguito importanti come Marcello Marchesi e Federico Fellini, dove rimase per cinque anni, scrivendo nel medesimo tempo anche copioni radiofonici e testi per il teatro di avanspettacolo.
Da lì le porte del cinema si aprirono grazie a Mario Monicelli, che lo volle come sceneggiatore e spesso come aiuto regista in molti suoi film, scrivendo copioni anche per Simonelli, Bragaglia, Freda e Borghesio, oltre ad apparire come attore in due film. Nel 1949, con “Al diavolo la celebrità” fece il suo esordio alla regia dirigendo otto film in collaborazione con Mario Monicelli, già suo fedele compagno di sceneggiature sin dall’immediato dopoguerra. A partire dal 1952, con “Totò a colori”, firmò da solo le sue pellicole.
Nei trenta anni seguenti diresse un grande numero di film che ottennero spesso strepitosi successi con tutti gli attori cari al grande pubblico, tra i quali quelli più grandi, Totò e Alberto Sordi, ma anche Aldo Fabrizi, Renato Rascel, le coppie Tognazzi – Vianello e Franchi – Ingrassia, Jonny Dorelli, Bud Spenser, Lando Buzzanca, Gigi Proietti, Enrico Montesano, Renato Pozzetto, Paolo Villaggio e Diego Abbatantuono e tanti altri; nonché attrici celebri del calibro di Marisa Allasio, Silva Koscina, Edwige Fenech, Ornella Muti ed altre ancora.
Sposato con Maria Teresa Nati, ebbe da lei due figli entrati con successo nel mondo del cinema: i fratelli Vanzina, Enrico come sceneggiatore, Carlo come regista e produttore.
Nel 2008, vent’anni dopo la sua scomparsa, venne presentato alla Festa del Cinema di Roma il documentario a lui dedicato “Steno, genio gentile”.
È sepolto nel Cimitero Flaminio di Roma.
Foto di Lorenzo Bove
Europa: 60 anni dei Trattati di Roma del 25 marzo 1957

Domani, 25 marzo 2017, ricorre il 60° dei Trattati di Roma istitutivi della Cee e dell’Euratom, che diedero avvio ad una nuova Comunità tra Italia, Francia, Germania Ovest, Belgio, Olanda e Lussemburgo; una prima piccola Comunità Europea che si è poi sviluppata fino a comprendere ben 28 Stati (ora 27 per via della c.d. Brexit comportante la fuoriuscita del Regno Unito).
E’ già storia e persone della mia età, che all’epoca di anni ne avevano 12, cominciano a rendersi conto di aver vissuto, seppure da spettatori inconsapevoli, l’alba dell’Europa.
Ricordi sfumati di un avvenimento importante che si stava celebrando a Roma, la giornata di vacanza a scuola (cum gaudio magno per noi ragazzi!), la cerimonia ripresa in eurovisione (e seguita soltanto da chi la tv ce l’aveva, a meno di vederla al bar o presso associazioni, amici e parenti).
A Roma, nella medesima sede del Campidoglio di allora, i 27 Capi di Stato e di Governo si sono dati dunque appuntamento per il 25 marzo 2017, al fine di sugellare e rilanciare (ci auguriamo) quei Patti di 60 anni orsono; una ricorrenza pervasa tuttavia da qualche corrente di euroscetticismo, fomentata da cittadini europei, sia dei sei Paesi fondatori che degli Stati dell’ex blocco socialista. E la Gran Bretagna che avvierà l’iter per l’uscita dall’Eu il 29 marzo prossimo, soli quattro giorni dopo l’appuntamento di Roma. Una Roma superblindata, per l’occasione, per garantire la sicurezza dei partecipanti ed il corretto svolgimento dei lavori.
Per l’Italia, Altiero Spinelli viene soventemente citato come padre fondatore dell’Europa, per la sua influenza sull’integrazione europea post bellica.
Fondatore nel 1943 del Movimento Federalista Europeo, poi cofondatore dell’Unione dei Federalisti Europei, membro della Commissione europea dal 1970 al 1976, poi del Parlamento italiano (1976) e quindi del primo Parlamento europeo eletto a suffragio universale nel 1979. Fu promotore di un progetto di trattato istitutivo di una Unione Europea con marcate caratteristiche federali che venne adottato dal Parlamento europeo nel 1984. Questo progetto influenzò in maniera significativa il primo tentativo di profonda revisione dei trattati istitutivi della Cee e dell’Euratom, l’Atto unico europeo. Fu membro del parlamento europeo per dieci anni come indipendente e rimase uno degli attori politici principali sulla scena europea.
Nel giugno del 1941, durante il soggiorno forzato sull’isola di Ventotene, Spinelli, con la collaborazione di Ernesto Rossi e di Eugenio Colorni, scrisse il documento base del federalismo europeo: il Manifesto per un’Europa Libera e Unita, meglio conosciuto come Manifesto di Ventotene.
Spinelli fu liberato da Ventotene dopo l’arresto di Mussolini, ai primi di agosto del 1943. Di fronte a quella che era stata la catastrofe europea, a causa del nazi-fascismo, Spinelli aveva maturato la convinzione che solo un’organizzazione federale europea avrebbe potuto garantire, per il futuro, la pacifica convivenza dei suoi popoli.
Il 27 e il 28 agosto 1943, in casa di Mario Alberto Rollier in Via Poerio, a Milano, dove una lapide ricorda l’evento, si tenne il congresso di fondazione del Movimento Federalista Europeo.
Ma non dovremmo neanche dimenticare che l’idea d’Europa – nel dopoguerra – nasce (anche) con la dichiarazione Schuman, con la quale l’omonimo ministro degli Esteri francese il 9 maggio 1950 propose, in un celebre discorso a Parigi, il superamento del contrasto secolare tra Francia e Germania e l’avvio dell’integrazione economica e, in prospettiva, anche politica tra i vari Stati europei.
Orbene, lo scenario che si prospetta oggi in Europa vede l’approdo federalista, per il momento, ancora lontano con il rischio che possa allontanarsi sempre di più. Personalmente, penso che ciò sia dannoso in tutti i sensi per l’Italia e per tutti gli altri Stati membri.
Il nazionalismo esacerbato e la pretestuosa difesa ad oltranza della propria sovranità nazionale non va da nessuna parte; potrebbe al più comportare una ineluttabile marcia indietro verso il passato fatto di limitazioni, divieti, intrighi, lotte e guerre senza quartiere.
Vuoi mettere … la moneta unica (l’euro), il libero scambio delle merci, la libertà di movimento delle persone, lo scambio e l’integrazione culturale (Erasmus), ecc.
E non può (e non deve) la paura delle infiltrazioni terroristiche giustificare limitazioni di sorta in materia, ricostituendo le vecchie barriere ai confini degli Stati o addirittura erigendo novelli muri (di Berlino).
Bisogna, al contrario, andare avanti, combattendo naturalmente il terrorismo, ma senza chiuderci a riccio, verso un’Europa compiuta, un’Europa dei cittadini europei senza frontiere in tutti i sensi. E i nostri giovani che studiano e che lavorano all’estero e che si sposano tra di loro e che mettono al mondo bimbi europei, sono già più avanti di alcuni nostri politici (o presunti tali) che parlano di uscita del proprio Paese dall’euro, dall’Europa, ecc.
Il federalismo tra gli Stati membri, al quale a mio avviso bisogna puntare, riesce a contemperare l’esigenza di rappresentare nel mondo una Confederazione unitaria forte e sovrana, nel rispetto delle identità territoriali dei singoli Stati.
Una Carta Costituzionale Europea, un Presidente della Confederazione Europea ed un Parlamento Europeo eletti da tutti i cittadini europei, una Banca Centrale Europea, un Esercito Europeo, ecc.
Una precisa individuazione e demarcazione dei “poteri centrali” e dei “poteri territoriali”.
Un Organismo di controllo super partes (Corte Costituzionale Europea) per dirimere i conflitti.
Il contestuale “alleggerimento” dei “poteri” degli Stati membri (sia in termini di rappresentanza elettiva che di competenze e quindi con contenimento dei costi della politica).
Non è mai troppo tardi … diceva il maestro Alberto Manzi (in televisione, nel corso di istruzione popolare per il recupero dell’adulto analfabeta degli anni ’60).
Roma, Campidoglio
Trattati di Roma, 25 marzo 1957
LA POESIA VINCE IL TEMPO E RENDE IMMORTALI. ”Dal vernacolo a Shakespeare: tanti poeti tante poesie”.

Il Centro Studi Territoriale – Simposio Culturale di Poggio Imperiale, coordinato dalla Prof.ssa Antonietta Zangardi, inizia il cammino del suo terzo anno di vita con una nuova Conferenza – Evento sulla tematica della poesia “che vince il tempo e rende immortali”, che si terrà a Poggio Imperiale il prossimo 16 febbraio.
Riporto, qui di seguito, l’articolo pubblicato dalla medesima Prof.ssa Antonietta Zangardi su www.gazzettaweb.net il giorno 1/2/2017, con il quale vengono divulgati i dettagli della manifestazione culturale in parola che, a parer mio, riscuoterà senz’altro il successo che merita.
« Riprendono, Giovedì 16 febbraio 2017, le Conferenze del Centro Studi Territoriale – Simposio Culturale di Poggio Imperiale; è il primo appuntamento del terzo anno di studi di questo centro che, se pur con fatica, caparbietà e molti sacrifici dei sui componenti e dei Coordinatori, ravviva culturalmente la popolazione di Poggio Imperiale.
La Conferenza – Evento si terrà presso la sala multifunzionale, ex palestra in via Oberdan a Poggio Imperiale, alle ore 18,30 .la Conferenza ha per titolo: LA POESIA, vince il tempo e rende immortali “dal vernacolo a Shakespeare, tanti poeti tante poesie”.
Il percorso di studio del CST, Simposio culturale, comprende tematiche accattivanti e interessanti.
Si partirà dalla Scuola Poetica Siciliana di Federico II di Svevia, per proseguire con poeti e poesie napoletane e romanesche, quindi giungere alle poesie scritte con i nostri dialetti locali, il vernacolo terranovese e quello lesinese.
Le poesie e i poeti esistono ancora e restano nel Tempo, grazie alle piccole Case Editrici come” Edizione del Poggio” con la collana “Emozioni” diretta da Giucar Marconi.
La scelta delle poesie estere è ricaduta su due Sonetti del grande W. Shakespeare, a quattrocento anni dalla sua morte, che ancora attualmente, trattano e incantano per il loro contenuto: la poesia che vince il tempo e rende immortali.
Per i poeti italiani sono stati scelti alcuni per il modo con cui trattano il tema della “sera” e per il concetto di “poesia eternatrice”.
Gli intermezzi musicali, con la voce di Stefania Cristino accompagnata da Primiano Schiavone, Gino Maselli, Primiano Schiavone, Dino Vitale, arricchiranno e faranno da cornice alla serata, magistralmente preparata dalla coordinatrice, Antonietta Zangardi.
Relatori della serata: Antonietta Zangardi, Rossella Gravina, Giuseppe Izzo, Titta Romano, Stefania Cristino, Nicla Simeone, Angela Chenet, Bove Luciana, Luigi Cuccitto, Luigini Vincenzo.
Direzione tecnica: Antonio Giacò, Peppino Tozzi, Nazario Mazzarella ».
Cosa succede nel mondo, oggi, con Trump nuovo presidente USA?

I giornali e le televisioni ci informano che negli Stati Uniti d’America continuano le manifestazioni di protesta contro i provvedimenti di Trump, che ha sospeso per quattro mesi l’accesso di migranti provenienti da ben sette paesi (islamici), per scongiurare attentati terroristici. Lo stesso Trump sostiene che c’è bisogno di confini forti per arginare l’afflusso inconsiderato di migranti, per prevenire quello che è avvenuto in Europa.
Il Corriere della sera di oggi 30 gennaio 2017 riporta: “USA, 16 Stati si ribellano alle restrizioni ai migranti di Trump. «Incostituzionale». Sedici procuratori generali attaccano il provvedimento. Trump difende la scelta: Non è un bando ai musulmani, i visti saranno rilasciati tra 90 giorni”.
Il particolare momento politico, economico e religioso che il mondo intero sta oggi attraversando, potrebbe forse rappresentare l’apice del peculiare fenomeno in atto e delineare, chissà, l’inizio di un vero e proprio punto di svolta (in senso positivo o negativo che sia) nella tenuta dei fragili e complessi equilibri dei popoli del nostro pianeta. Questo non è dato sapere, ma sta di fatto che le opzioni statunitensi non possono essere considerate una circostanza del tutto casuale.
Una nuova grande rivoluzione sta muovendo da oriente e da occidente, dal nord e dal sud; una nuova “guerra mondiale” combattuta non con le armi tradizionali ma con i nuovi strumenti di comunicazione individuali di massa, attraverso i quali si mobilitano in un batter d’occhio migliaia ed anche milioni di simpatizzati intorno ad un’idea, un movimento, ecc.
Ed anche gli Stati Uniti d’America, in occasione delle recenti elezioni presidenziali, hanno dato dimostrazione che le competizioni sono oggi dominate soprattutto dai movimenti di opinione promossi attraverso questi moderni sistemi che raggiungono capillarmente ed in tempo reale ogni singolo individuo in possesso di un normalissimo telefonino cellulare od altro simile marchingegno. E così si sceglie Donald Trump piuttosto che Hillary Clinton, a furia di colpi bassi (in verità inferti da entrambe le parti), senza approfondire minimamente i programmi, ma basandosi semplicemente sulle balle sparate più grosse.
Non molto tempo fa anche la Gran Bretagna si è trovata ad affrontare il problema della Brexit, ove pare che la questione sia sfuggita di mano in quanto sottovalutata, in relazione ai modelli standard di riferimento in materia di referendum, con la conseguente vittoria dei “SI” all’uscita degli inglesi dall’Europa Unita.
Analoghe considerazioni possiamo fare, nella buona o cattiva sorte, per il recente referendum confermativo italiano che ha comportato invece la vittoria dei “NO” alle riforme costituzionali.
Il presidente della Turchia ha sventato e sedato un colpo di stato militare mobilitando le masse con i telefonini cellulari; tutti in piazza e nelle strade con i forconi per dare manforte al loro presidente Erdogan, il quale si è sentito poi in dovere di fare piazza pulita di militari, politici, dirigenti, impiegati statali, ecc., cogliendo l’occasione per trasformare la Turchia in Repubblica Presidenziale (salvo esito del referendum popolare che verrà prossimamente indetto).
Anche Putin, il presidente della Russia, gode di un consistente consenso popolare e quindi opera scelte di grande rilievo, sfiorando a volte i limiti imposti dai trattati internazionali.
A breve ci saranno le elezioni politiche in Germania ed in Francia e a quanto pare anche in Italia (al più tardi all’inizio del prossimo anno, a fine legislatura); anche queste ultime subiranno lo stesso fascino?
E, dunque, assistiamo in questi giorni, alle iniziative del nuovo presidente degli Stati Uniti, il quale rivoluziona, sic et simpliciter, a pochi giorni dal suo insediamento, i rapporti internazionali con gli altri Stati, consolidati nel corso degli anni, inasprendo così le condizioni di pacifica convivenza dei popoli, soprattutto in presenza di focolai di guerra ancora accesi in diverse località del mondo e, rispetto ai quali, proprio i governi che lo hanno preceduto non possono ritenere di chiamarsi fuori senza l’assunzione di qualche responsabilità. E, ciò, nonostante il dissenso mostrato da molti statunitensi, che manifestano nelle piazze delle maggiori città (ed anche sotto la Casa Bianca) la loro contrarietà alla politica del loro nuovo presidente; dissenso iniziato già nello scorso mese di novembre dopo l’esito delle elezioni presidenziali e che prosegue tutt’ora.
Un tempo negli Stati Uniti d’America, all’esito del voto, il Presidente eletto era per tutti il proprio presidente, indipendentemente dal voto che si era dato.
Con Donald Trump pare che cominci una nuova era!
Ma si odia Trump perché non si condivide il suo programma o per altri motivi legati soprattutto alla campagna elettorale nel corso della quale i due contendenti se le sono dette di cotte e di crude?
O, forse, ha ragione Francesco Alberoni ne “Il Giornale” di domenica 29 gennaio 2017, quando dice: “Guai a trasformare la lotta politica in guerra dei sessi – La competizione fra Clinton e Trump è diventata una competizione fra sinistra e destra del mondo”.
Riporto, qui di seguito, il testo dell’articolo di Francesco Alberoni citato:
“In ogni Paese infatti vi erano partigiani di Obama e di Hillary e partigiani di Trump e, poiché un po’ dovunque in Occidente la stampa e il mondo dello spettacolo erano orientati a sinistra, la vittoria di Trump è stata vissuta come la vittoria di un nemico della sinistra e di tutto quanto c’era di progressista. Quindi anche della cultura e dell’arte, espressioni di quanto più rozzo, grossolano e incivile c’era nel fondo barbarico dell’America. E poiché i democratici e, più in generale, quelli di sinistra si considerano i campioni della democrazia hanno visto la vittoria di Trump come l’ascesa al potere di un tiranno antidemocratico, di un potenziale despota. Contro di lui si è mobilitata la stampa e tutto il mondo dello spettacolo americano, nessun cantante si è prestato a cantare per Trump e nessun divo di Hollywood è stato presente al suo insediamento. Hillary, inoltre, si è presentata come il campione della riscossa femminista, quella che ne difende il potere e i valori. Gioco facile con Trump, accusato di essere antifemminista perché ha avuto la sfacciataggine di dichiarare che le donne sono inferiori agli uomini. Un insulto che molte donne si sono passate di bocca in bocca, che è stato rilanciato dalla stampa e di cui hanno fatto uno slogan di battaglia. Oggi stampa e televisione americane ci presentano il conflitto politico come una guerra dei sessi: da un lato le donne democratiche che difendono il progresso, dall’altra i maschilisti trumpisti rozzi e brutali. Un conflitto che qualche base sociale ce l’ha negli Stati Uniti, dove esiste una violenta competizione fra femmine e maschi. Ma i politici di sinistra, la stampa a la televisione nostrani sbagliano a credere di poterlo trapiantare in Italia. L’uragano Trump si abbatterà contro la prepotenza della Germania, le velleità della Francia e la burocrazia di Bruxelles, ma non dispiacerà agli italiani, maschi e femmine, che sono sempre stati trattati male da queste arroganti potenze europee”.
Cosa ci riserverà dunque il futuro?
Sicuramente un cambiamento e un sostanziale riequilibrio dei rapporti di forza tra gli USA e la Russia e conseguentemente un riassetto dell’Europa, che potrà spaziare tra la sua ricompattazione (Stati Uniti d’Europa, con suo Governo centrale, una sua Banca centrale, un Esercito unico, ecc.) e il ritorno ai nazionalismi esacerbati con il suo conseguente e graduale disfacimento.
Foto di repertorio internet
Il Governo che non mi piace!

Da ieri sera l’Italia ha un nuovo Governo: il sessantaquattresimo in 70 anni di Repubblica, in media quasi uno all’anno. Governo fotocopia … ” Renziloni” … “Gentilrenzi” (o con altri fantasiosi appellativi), così viene definito il nuovo Governo presieduto da Paolo Gentiloni, già Ministro degli Esteri del cessato Governo. E, in effetti, al di là di qualche spostamento di poltrona e di alcune new entry, il nuovo Governo non si discosta molto dal precedente Governo presieduto da Matteo Renzi, dimissionario dopo il flop incamerato alla kermesse referendaria del 4 dicembre scorso, che ha fatto registrare una percentuale del 59% a favore del fronte del NO, rispetto al 41% a favore del fronte del SI, che il referendum confermativo della Riforma Costituzionale aveva promosso e caldeggiato, nel corso di una viva competizione che ha acceso gli animi degli italiani, trascinandoli in massa ai seggi elettorali, con un’affluenza eccezionale che ha sfiorato il 70% degli aventi diritto al voto.
L’ex Presidente Renzi aveva personalizzato (fatale errore?) la Riforma Costituzionale formalmente approvata dal Parlamento, fino al punto di minacciare (sua sponte, in quanto non atto dovuto, né richiesto da chicchessia) le proprie dimissioni in caso di sconfitta, prestando il fianco al fronte del NO … che oltre alle sue dimissioni richiedeva anche lo scioglimento anticipato delle Camere da parte del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e l’indizione di nuove elezioni politiche.
La notte del Referendum, a fronte della debacle scaturita dallo scrutinio delle schede elettorali , il Presidente del Consiglio in carica ha confermato le proprie dimissioni, formalizzandole l’indomani al Quirinale nelle mani del Presidente Mattarella, il quale provvedeva al “congelamento” delle stesse, invitando Renzi a completare prima l’iter approvativo della “Legge di Stabilità 2017” in discussione al Senato e già approvata alla Camera dei deputati.
Eseguite tali ultime incombenze (ponendo naturalmente il voto la fiducia, per evitare che eventuali modifiche al testo già approvato alla Camera, rendessero poi necessario il rinvio della legge alla Camera stessa per la necessaria approvazione [Esempio del ping pong derivante dal nostro bicameralismo paritario previsto dalla Costituzione (pare … la più bella del mondo!)], Renzi è salito nuovamente al Quirinale per rassegnare le proprie dimissioni irrevocabili nelle mani del Presidente Mattarella.
Il fronte del No, già vittorioso al Referendum, con le dimissioni di Renzi aveva così portato a casa anche la seconda vittoria. Per il coronamento del “sogno” mancava ora solamente lo scioglimento anticipato delle Camere da parte di Mattarella, per andare di filata alle nuove elezioni politiche. Ma c’era, purtroppo, un piccolo intoppo di cui tutti erano a conoscenza e che Mattarella non poteva proprio ignorare: la nuova legge elettorale in vigore (il c.d. Italicum) prevede esclusivamente le procedure di elezione della Camera dei Deputati e non anche quelle per il Senato della Repubblica, e ciò in quanto la Riforma Costituzionale (bocciata con il Referendum del 4 dicembre scorso) ne prevedeva la trasformazione in Senato delle Autonomie Regionali, da eleggere su basi territoriali.
E, dunque, l’unica via d’uscita per il Capo dello Stato rimaneva quella di conferire l’incarico di formare un nuovo Governo a Paolo Gentiloni della coalizione che conserva ancora la maggioranza in Parlamento, a seguito delle consultazioni di rito che avevano fatto registrare un netto rifiuto da parte del fronte del NO a partecipare a qualunque forma di Governo di “larghe intese”, finalizzato a traghettare il Paese fuori dalla palude nella quale era andato ad impantanarsi.
Un nuovo Governo, dunque, per stimolare il Parlamento ad elaborare ed approvare celermente (nelle more della sentenza della Consulta sulla costituzionalità di alcuni punti dell’Italicum, prevista per il 24 gennaio 2014) una nuova legge elettorale che consenta agli italiani di poter presto ritornare alle urne per eleggere un nuovo Parlamento consapevole ed in grado di ricercare quelle “larghe intese” indispensabili, oggi più che mai, per dare al Paese un Governo affidabile ed in grado di affrontare le sfide interne ed internazionali che attanagliano il mondo intero.
No, questo è un Governo che non mi piace! E non mi piace, come del resto non piace a molti degli italiani, sia fra quelli che al Referendum hanno votato NO, sia fra quelli che invece hanno votato SI.
Ma sono conscio che non si poteva fare diversamente … e soprattutto non c’erano altre vie d’uscita, rispetto anche agli impegni internazionali ai quali l’Italia dovrà far fronte nei prossimi giorni e nei prossimi mesi.
Anche la Borsa, in queste ore, … pare che stia dando segnali positivi; speriamo bene.
I movimenti di piazza paventati da più parti per utilizzare il responso referendario (l’affluenza del 70% e il risultato del 59%) come grimaldello per forzare il portone del Palazzo, sono del tutto fuorvianti e dannosi in tutti i sensi.
Come sarebbe bello un Governo di responsabilità allargato a tutti i partiti.
Utopia?
L’Abbazia Sacra di San Michele della Chiusa

L’Abbazia Sacra di San Michele della Chiusa, denominata semplicemente “Sacra di San Michele”, è uno dei monumenti più scenografici di tutto il Piemonte e non a caso è stato scelto come simbolo della Regione medesima.
Arroccata su di uno sperone roccioso, in cima al monte Pirchirano, essa domina la Val di Susa dai suoi 962 metri di altezza, regalando alla valle un profilo inconfondibile e decisamente suggestivo. La sua fondazione è databile tra il 983 e il 987 e risulta essere uno tra i più grandi complessi architettonici religiosi di epoca romanica di tutta Europa.
All’osservatore attento, l’ubicazione della Sacra di San Michele in un contesto montuoso ed incantevole al tempo stesso, richiama immediatamente alla mente gli altri due importanti insediamenti micaelici del Gargano (Monte Sant’Angelo) e della Normandia, in Francia (Mont-Saint-Michel). E non è un caso che la Sacra di San Michele si trova al centro di una via di pellegrinaggio di oltre duemila chilometri che unisce quasi tutta l’Europa occidentale da Mont-Saint-Michel a Monte Sant’Angelo e che proseguendo sulla stessa linea retta porta infine a Gerusalemme.
Anche noi abbiamo voluto visitare questo stupendo luogo sacro e lo abbiamo fatto proprio il 29 di settembre scorso, giorno dedicato alla festa di San Michele Arcangelo, partecipando quindi anche ai solenni riti religiosi celebrati nell’occasione della festa patronale: Santa Messa celebrata dal S.E. il Vescovo in concelebrazione con le Comunità ecclesiali della Valle, accompagnata dai cantori della Federazione delle Cantorie Valsusine.
Giunti sulla sommità dello sperone roccioso, di fronte all’impressionante Abbazia, ci siamo sentiti come avvolti in un alone di mistero (sembrava di vivere in un’altra epoca storica), ma nel contempo ci è sembrato di toccare il cielo con un dito; un luogo carico di spiritualità, ove si puo’ unire alla preghiera, l’ammirazione dell’arte, della natura e dell’architettura, e tutto questo nel medesimo contesto.
Il culto dell’Arcangelo, dall’Oriente si diffuse e si sviluppò nelle regioni mediterranee, in particolare in Italia, dove giunse assieme all’espansione del cristianesimo.
Nel V secolo sul promontorio del Gargano sorse il più antico e più famoso luogo di culto micaelico dell’occidente, il Santuario di San Michele a Monte Sant’Angelo. Molto presto questo Santuario divenne un luogo importante per la diffusione del culto micaelico in Europa e in Italia e rappresentò il modello ideale per tutti i santuari angelici successivi, che furono appunto eretti “a somiglianza” di quello garganico: le cime dei monti, i colli, i luoghi elevati, le grotte profonde furono dalle origini considerate come la sede più appropriata per il culto degli angeli e di Michele in particolare.
In Francia nel 708 o 709, su un altro promontorio, sulla costa della Normandia, fu consacrato all’Angelo un santuario detto di “Mont-Saint-Michel au péril de la mer” a causa del fenomeno dell’alta e bassa marea che rendeva (e rende ancora) pericoloso quel luogo. E così anche la Sacra di San Michele nasce e cresce attorno al culto di San Michele, che approdò in Val di Susa nei secoli V o VI. La sua ubicazione è localizzata sulla “ Via Michelita o Via Angelica”, un tragitto che molti pellegrini percorrevano nel Medioevo e che unisce, come si è detto, le Basiliche di Mont-Saint Michel in Normandia, la Sacra di San Michele in Piemonte e Monte Sant’Angelo in Puglia. La leggenda vuole che questo percorso sia stato tracciato dalla spada di San Michele durante la lotta contro il demonio, allorchè si sarebbe creata una fenditura (si dice che sia ancora presente, ma invisibile) che collega le tre basiliche dedicate a San Michele Arcangelo. Inoltre, questo tragitto è parte integrante di quel lungo “cammino” rappresentato dalla “Via Francigena”, l’antica via che univa Canterbury a Roma e poi ai porti della Puglia verso Gerusalemme (oggi riscoperta dai moderni “viandanti”, che si mettono in cammino lungo un percorso splendido e sorprendente; dal 2001 l’Associazione Europea delle Vie Francigene coordina lo sviluppo e la valorizzazione di un itinerario che attraversando l’Italia e l’Europa ripercorre la storia del nostro continente).
Ma ci sono anche altre leggende che si ricollegano più al mondo della fantasia, del surreale e della magia. Sussisterebbe una linea magica (di San Michele) ovvero il punto energetico degli equilibri europei. Proprio alla Sacra di San Michele sarebbe legato il mistero della cosiddetta linea magica di San Michele.: sembrerebbe infatti che una linea energetica unisca tre basiliche/abbazie dedicate proprio all’Arcangelo Michele. I tre punti di questa linea sarebbero: il Mont-Sain-Michel, situato in Francia nella Regione della Normandia, la Sacra di San Michele appunto e il Monte Sant’Angelo in Puglia. Secondo gli esperti di “magia bianca” il punto energetico sarebbe situato su una piccola piastrella del pavimento; posizionandosi su quel punto, sempre secondo queste teorie, si percepirebbe nitidamente la potente energia della linea magica di San Michele, che rappresenterebbe il punto energetico degli equilibri europei; punto che nella Sacra di San Michele in Piemonte si troverebbe sulla sinistra della Chiesa, subito dopo l’entrata. Ovviamente sono teorie non verificate, salvo il fatto che i tre luoghi sacri dedicati a San Michele si trovano a 1000 chilometri di distanza l’uno dall’altro, allineati lungo questa linea retta, la quale prolungata in linea d’aria, passa sopra Gerusalemme da una parte, e sopra St Michael’s Mount, in Cornovaglia sempre dedicato a San Michele e poi continua fino ad arrivare all’isola di Skellig Michael in Irlanda.
Un’altra leggenda narra di una giovane donna di nome Alda, una ragazza molto bella, pia e devota, che – mentre stava andando al Santuario per pregare – venne improvvisamente assalita da alcuni soldati di ventura. La malcapitata fece di tutto per divincolarsi e sfuggire alla violenza gettandosi da una delle torri dell’imponente Sacra di San Michele. Precipitò nel vuoto e la sua fine sembrava inevitabile. Ma quel gesto di purezza e sacrificio impietosì talmente tanto gli angeli e la Madonna che la salvarono, facendola “atterrare” a valle sana e salva. Purtroppo la ragazza si fece prendere dalla superbia, raccontando a tutti di come era stata salvata dagli angeli e di come fosse “protetta” dal cielo. Nessuno le credeva e così, per vanità, la bell’Alda tornò sulla torre e si gettò nel vuoto. Tuttavia, considerato il futile motivo per cui la ragazza si era buttata questa volta, non ci fu nessun intervento divino a salvarla e la ragazza si sfracellò a terra. Un modo di dire locale afferma che “l’orecchio fu la parte più grande che trovarono della bell’Alda”.
Dalle origini ai Benedettini
L’elemento peculiare della Sacra di San Michele è la sua posizione alla sommità del monte Pirchiriano, uno sperone roccioso appartenente al gruppo del Rocciavré nelle Alpi Cozie (alt. 962 metri s.l.m.). Pirchiriano è il nome antichissimo del monte, forma elegante di Porcarianus o monte dei Porci, analogamente ai vicini Caprasio, o monte delle Capre, e Musinè o monte degli Asini. Il monte vede la presenza di insediamenti umani fin dai tempi preistorici. In epoche successive viene fortificato dai Liguri e poi dai Celti sotto il dominio dei due re Cozio. Nel 63 d.c. quando le Alpi Cozie diventano Provincia Romana, il luogo, data la sua posizione strategica, viene sfruttato dai Romani come area di interesse militare, “castrum”. Dal 569 d.c. i Longobardi invadono e occupano le Alpi Cozie. E’ in questo periodo che in Valle di Susa vengono erette le famose “Chiuse dei Longobardi”. Questi innalzarono muraglie e torri attraverso la valle quando, sotto la guida del loro re Desiderio e del figlio Adelchi, si ammassarono per resistere all’entrata in Italia di Carlo Magno, re dei Franchi. Nel 773 d.c. questi ultimi, vincitori della battaglia delle Chiuse, conquistano la zona e vi rimangono fino all’888 d.c., anno in cui i Saraceni invadono le Alpi occidentali ed esercitano il loro dominio per un’ottantina di anni.
I Benedettini
Sul finire del X secolo San Giovanni Vincenzo, un discepolo di San Romualdo, inizia quassù la vita eremitica. La scelta del luogo è certamente condizionata dall’imponenza, dalla predisposizione al sacro del monte Pirchiriano e dalla preesistenza di una colonia eremitica sul monte Caprasio.
Alle soglie dell’anno mille irrompe, in quest’eremo di Giovanni Vincenzo, un personaggio che cerca redenzione da un discutibile passato: è il conte Ugo (Ugone) di Montboissier, ricco e nobile signore dell’Alvernia, recatosi a Roma per chiedere indulgenza al Papa. Questi, a titolo di penitenza, gli concede di scegliere fra un esilio di 7 anni e l’impresa di costruire un’abbazia.
Siamo alla fine del 900 quando inizia l’edificazione del monastero, affidato poi a cinque monaci benedettini.
Tramite l’iniziativa di Ugo di Montboissier e il sistematico reclutamento di abati e monaci in Alvernia, sul Pirchiriano si sviluppa un punto di sosta per pellegrini di alto livello sociale, quasi un centro culturale internazionale.
L’ambizione autonomistica è viva fin dall’inizio della storia del monastero, preoccupato di sottrarsi alla giurisdizione dei vescovi di Torino: in particolare nel secolo XI i monaci, con il loro più famoso abate Benedetto II, si schierano decisamente in favore della riforma centralistica romana. Ottenuta presto l’autonomia e l’indipendenza dall’autorità temporale e da quella del vescovo, l’abbazia, grazie ad un’ampia e intensa ospitalità, può favorire gli scambi non solo di ordine pratico ma di profondo significato spirituale, che contribuiscono a creare il patrimonio comune di una grande civiltà religiosa. È in questo periodo che la Sacra estende i propri possedimenti in Italia e in Europa, sui quali esercita diritti spirituali, amministrativi, civili e penali.
Dagli inizi fin verso la prima metà del 1300 il monastero vive la sua stagione più favorevole sotto la guida degli abati benedettini, alla quale segue mezzo secolo di decadenza.
Nel 1379 il malgoverno dell’abate Pietro di Fongeret, induce Amedeo VI di Savoia (il conte Verde) a chiedere alla Santa Sede l’abolizione della figura dell’abate monaco, cui si sostituisce quella del commendatario. Con la nomina dei commendatari incomincia l’agonia del monastero: dal 1381 al 1622 i monaci furono governati da priori, mentre gli abati commendatari, sempre lontani dal monastero, ne godevano le rendite. Uno di essi, il cardinale Maurizio di Savoia, nel 1622 convinse Papa Gregorio XV a sopprimere il monastero, abitato ormai soltanto da tre monaci.
Le rendite che servivano al mantenimento dei monaci furono destinate alla costruzione della Collegiata dei Canonici di Giaveno, i quali successero agli scomparsi monaci negli obblighi verso il monastero: a loro appartenne la cura e il servizio del Santuario fino al 1629. Così ebbe fine il potente ordine benedettino della Chiusa, dopo una vita di più di seicento anni.
I Padri Rosminiani e gli Ascritti
Dopo seicento anni di vita benedettina, la Sacra resta quasi abbandonata per oltre due secoli! Nel 1836 Re Carlo Alberto di Savoia, desideroso di far risorgere il monumento che era stato l’onore della Chiesa piemontese e del suo casato, pensò di collocarvi stabilmente una congregazione religiosa. Offre l’opera ad Antonio Rosmini, giovane fondatore dell’Istituto della Carità, che l’accetta, trovandola conforme allo spirito della sua congregazione. Papa Gregorio XVI, con Breve dell’agosto 1836, nomina i Rosminiani amministratori della Sacra e delle superstiti rendite abbaziali. Contemporaneamente, il re affida loro in custodia le salme di ventiquattro reali di casa Savoia, traslate dal Duomo di Torino, ora tumulate in santuario entro pesanti sarcofagi di pietra. La scelta di questa antica abbazia evidenzia la prospettiva della spiritualità di Antonio Rosmini che, negli scritti Ascetici, richiama costantemente ai suoi religiosi la priorità della vita contemplativa, quale fonte ed alimento che dà senso e sapore ad ogni attività esterna: nella vita attiva il consacrato entra solo dietro chiamata della provvidenza e tutte le opere, in qualsiasi luogo o tempo, sono per lui buone se lo perfezionano nella carità di Dio. I padri Rosminiani restano alla Sacra anche dopo la legge dell’incameramento dei beni ecclesiastici del 1867 che spogliava la comunità religiosa dei pochi averi necessari per un dignitoso sostentamento e un minimo di manutenzione all’edificio. Essi vi sono tuttora, mentre le mura sacrensi echeggiano d’un insolito fervore di iniziative, favorito dalla visita del Santo Padre Giovanni Paolo II (14/7/1991), promosso e confortato dalla presenza dei collaboratori e di tanti volontari, sostenuto da enti pubblici e privati, soprattutto dalla Regione, dopo che la legge speciale del 21/12/1994 ha riconosciuto “La Sacra monumento simbolo del Piemonte”.
Accanto ai Padri Rosminiani opera da qualche anno un gruppo di Ascritti rosminiani, anch’essi membri effettivi dell’Istituto della Carità, la Congregazione religiosa fondata da Antonio Rosmini sul monte Calvario di Domodossola nel 1828. Pur non avendo i voti di povertà castità e obbedienza, essi chiedono di unirsi alla Congregazione spiritualmente, partecipando alla comunione dei beni spirituali. L’ascrizione riunisce quindi cristiani, sacerdoti, chierici e laici, che, vivendo nel mondo, desiderano conseguire la perfezione cristiana in comunione spirituale con l’Istituto della Carità. Rosmini, nel libro delle Costituzioni, presenta l’ascrizione come una fratellanza che si stabilisce tra i membri consacrati e gli ascritti per aiutarsi scambievolmente nella propria santificazione e nell’esercizio delle opere di carità. Identico è lo scopo: la perfezione cristiana mediante la carità evangelica vissuta in tutta la sua estensione. Il gruppo di ascritti della Sacra si ritrova ogni terzo sabato del mese per approfondire la spiritualità rosminiana e per la celebrazione dell’Eucarestia.
In ricordo di Filomena

E’ venuta a mancare ieri mattina una nostra cara amica di Poggio Imperiale, Filomena Buzzerio, che avevamo rivisto solo qualche settimana fa nel corso del nostro recente soggiorno estivo in paese, e con la quale ci eravamo intrattenuti in piazza in una piacevole chiacchierata dopo la messa vespertina del sabato sera.
Abbiamo appreso con sgomento la notizia della sua imprevista e prematura scomparsa; un vero colpo al cuore: una cara amica (e, per me, anche pro cugina) che ci lascia all’improvviso e che ci fa comprendere la fragilità della vita, i valori dei rapporti umani e quanto effimere possono infine essere le quisquilie quotidiane che attanagliano l’umanità.
Riporto, qui di seguito, il toccante ricordo scritto per l’occasione dall’amica Antonietta Zangardi e pubblicato su Gazzettaweb.net http://www.gazzettaweb.net/it/journal/read/AMICA-DELLA-FORZA.html?id=1126
AMICA DELLA FORZA
di Antonietta Zangardi
Settembre, mese del rinnovamento, della ripresa e del ritorno alle attività sospese dall’estate. Hermann Hesse disegna, con delle immagini fugaci, l’estate che se ne va, crea delle atmosfere sfumate, giocando con le parole :
…
Silenziosa trema
l’estate, declinando alla sua fine.
Gocciano foglie d’oro
giù dalla grande acacia.
Ride attonita e smorta
l’estate dentro il suo morente sogno.
S’attarda tra le rose,
pensando alla sua pace;
lentamente socchiude
i grandi occhi pesanti di stanchezza.
Rubo ad un poeta il pensiero iniziale per raccontare questo settembre che ha sbalordito tutti nel nostro piccolo paese.
In un soleggiato giorno di settembre, in silenzio, sei andata via. Lo presagivi ed ecco perché ci hai voluto salutare. Abbiamo parlato tanto la sera prima che io partissi, ci siamo ripromesse che al mio ritorno avremmo ripreso il rito della passeggiata e della sosta in piazza che, sin da piccole eravamo solite fare.
La fanciullezza insieme, l’adolescenza, la giovinezza, l’età matura, tappe della vita nelle quali abbiamo condiviso gioie e angosce. Ci si ritrovava, magari dopo tanto tempo e si riprendeva il discorso, ci raccontavamo, ci ascoltavamo, ci parlavamo e poi promettevamo di rincontrarci con più frequenza.
Il sabato sera a messa, giravo la testa e ti scorgevo. Quando non c’eri, mi preoccupavo. Quando non c’ero io, tu ti preoccupavi.
Amiche da sempre. Ci univano le lunghe telefonate, quando non riuscivamo ad incontrarci. Niente e nessuno è riuscito mai a scalfire la nostra amicizia. Sì, amicizia: esiste l’amicizia, quella discreta, che non chiede e non s’impiccia, l’amicizia che unisce anche nel silenzio e in un triste giorno di settembre sei andata via, in silenzio, senza preavviso, com’era nel tuo stile, Filomena.
Non hai mai cercato nomignoli e abbreviazioni per il tuo nome e ora che non ci sei più fisicamente, voglio capire perché. Ricerco il significato e, con grande meraviglia leggo: “amica della forza”, philos, amico e menos, forza .
È incredibile! Ora che non ci sei più scopro di aver avuto come amica, un’amica della forza.
Antonietta Zangardi
Foto di repertorio
La “terra” di Nazario D’Amato

Si è tenuta a Poggio Imperiale, alle ore 19,30 di domenica 21 agosto 2016, presso il Centro Polivalente di viale Vittorio Veneto n° 50, la manifestazione di presentazione dell’ultimo libro di Nazario D’Amato intitolato “terra … racconto in storie e versi, dell’appartenenza”, che ha fatto registrare una folta ed interessata partecipazione di pubblico.
L’evento culturale è stato promosso dal Comune di Poggio Imperiale, la locale Sezione AVIS e le Edizioni del Poggio.
Relatori sono stati Lorenzo Bove, Appassionato di Tradizioni e Storia Locale ed Enzo D’Agostini, Amico d’infanzia dell’Autore, mentre Claudio Quartaroli, anch’egli Amico d’infanzia dell’Autore, ha letto alcune delle poesie contenute nel libro.
Il Sindaco Alfonso D’Aloiso, presente all’evento, ha porto i saluti dell’Amministrazione comunale ed ha accompagnato anche, alla chitarra, l’amico Nazario D’Amato , nel corso delle sue esibizioni canore proposte nel corso della serata. L’intrattenimento musicale è stato altresì arricchito dalla potente voce della nota e brava cantante poggioimperialese Stefania Cristino. Mixer audio, Dino Vitale.
Si riporta, qui di seguito, la relazione svolta nell’occasione da Lorenzo Bove, autore della Prefazione e della quarta di copertina del libro di Nazario D’Amato.
« Buonasera a tutti. E’ con vero piacere che mi accingo a svolgere la mia relazione in occasione della presentazione dell’ultimo libro del nostro compaesano Nazario D’Amato; è la terza volta che mi capita quest’anno di essere presente qui a Poggio Imperiale in veste di relatore in circostanze come questa, e la cosa mi rende particolarmente lieto, soprattutto stasera che si parla di … terra … di appartenenza …
“ La Terra nel suo significato più generale e la Terra come luogo di riferimento intimo e personale: la prima da amare, proteggere e preservare, l’altra di cui invaghirsi, infatuarsi e da desiderare fino all’inverosimile. Sentimenti delicati e preponderanti al tempo stesso, che la lontananza amplifica inesorabilmente. E il desiderio del ritorno che diviene sempre più forte.
Versi appassionati e storie che si intrecciano tra loro, svelando il naturale trasporto affettivo dell’uomo alla ricerca di un punto di riferimento che gli dia sicurezza: versi e storie che parlano di avvenimenti, luoghi e persone, ma che esprimono concetti di portata universale per la loro trasversalità di riferimento.
Perché, come si suol dire, “ogni mondo è paese”!
Nazario D’Amato, eclettico autore di libri e poesie, ma anche di musica e canzoni, che peraltro interpreta egregiamente accompagnandosi con la sua chitarra, ritorna al pubblico con un nuovo libro dal titolo “Terra, racconto in storie e versi, dell’appartenenza”, per i tipi delle Edizioni del Poggio, che suona come un inno di lode al suo amato paese natìo, attraverso rappresentazioni diverse che si snodano nel tempo e nello spazio, con le sfumature dei suoi sentimenti più profondi che ne impreziosiscono lo scenario, mettendo particolarmente in risalto il paradigma dell’appartenenza, che per Nazario rappresenta il tema dominante, il motivo conduttore di questo suo ultimo lavoro.
Traspare la nostalgia dei luoghi che ha lasciato da giovane, per motivi di lavoro, e che non ha mai dimenticato e la forza delle origini e della Terra che lo sorregge, lo ispira e lo esalta. “Perché quando sei in terre ‘straniere’ e fra gente sconosciuta” – scrive Nazario – “le tue radici, finchè non si radicano nella terra nuova, ti sostengono, non ti fanno vacillare dentro le bufere dei cambiamenti, delle novità, della solitudine”.
In una qualche maniera, negli scritti di Nazario è possibile ritrovare tracce del celebre sonetto di Ugo Foscolo “A Zacinto”, dedicato all’isola del mar Ionio (l’odierna Zante) dove egli nacque. Il poeta affronta il tema dell’esilio e della nostalgia della terra natale, paragonando la sua condizione a quella di Ulisse, che però fu più fortunato in quanto riuscì a rimettere piede sulla sua petrosa Itaca, mentre lui è condannato ad una illacrimata sepoltura, senza pianto, cioè morirà lontano dalla sua terra che non potrà rimpiangerne la scomparsa.
Sicuramente per Nazario non si tratta di esilio né tantomeno di diaspora, tant’è che egli, spesso e volentieri, fa ritorno alla sua Zacinto, anche se per pochi giorni o comunque per brevi periodi di tempo. Ma questo mordi e fuggi non gli basta: solo con il rientro definitivo in patria si sentirà davvero appagato e Nazario si dimostra fermo nei suoi propositi di ritorno risolutivo a Tarranóve, a differenza del Foscolo ormai rassegnato alla lontananza: “Né mai più ti rivedrò …”.
E i versi di alcune poesie del “Distacco” danno forza a questo suo esacerbato desiderio:“ … una barca senza vela, curvo ai remi un pescatore anela a miglior fortuna”, in “E’ sera”; ed ancora:“… ammirare per l’ultima volta … il sole, all’alba meridionale, spuntare …”, in “La Speranza”; ed ancora:“… ritroverò il cammino, non sarà il mio cammino stesso tratto pietoso di gente amica partita e mai più tornata: io ritornerò …”, in “Ma io tornerò”; ed ancora:“… sono la mia storia gli umori della terra, voglio morire negli umori della terra, voglio dissetarmi a questa fonte palpitante natura di donna in amore …” in “Voglio”.
Nazario, pur tormentandosi per la lontananza, non trascende mai in improperi o maledizioni verso l’ingrato destino o verso la Natura matrigna, ma, al contrario, cerca comunque di farsene una ragione : “… cantare alla vita e alla malinconia, alla casa lontana e alla nostalgia, con il sorriso cantare, finchè non viene il giorno cantare, perché domani è un altro giorno anche se la tristezza farà ritorno”, in “Domani è un altro giorno” … prendendo magari spunto dal famoso romanzo e colossal cinematografico “Via col vento”; ed ancora:“…o terra forestiera o terra di frontiera o terra senza storia! Se avessi memoria dei tuoi canti e dei tuoi lamenti non avrei paura e non sarebbe così scura questa notte di tormenti e di nostalgie …”, in “Il Temporale”. Anche se, inevitabilmente, lo sconforto della solitudine prende il sopravvento: “malinconie d’amore, versi nella solitudine che in eco fanno ritorno. Ma è solo l’eco. Nessuno ha sentito, nessuno ha ascoltato”?, in “Che calma stasera”, ed ancora: “Odo, violentate dal vento, le foglie secche del cortile rumoreggiare, impazzite. Stanca, la mano al mento”, in “Attesa”.
Il libro di Nazario è ben strutturato e la lettura risulta gradevole ed armonica, sia nella parte in prosa sia in quella dedicata ai versi. Nei primi due racconti, l’Autore regala alcuni scorci di storie del passato terranovese, riuscendo a rendere lieve, con molta maestrìa, anche qualche passaggio piuttosto scabroso (niente paura, si tratta solo di cimiteri, becchini e di qualche naturale decesso). Nel terzo, viene affrontato il delicato problema generazionale padre-figlio, con effetti flashback , e cioè con l’inserimento di ricordi del passato che si intrecciano con episodi del presente; ma si parla anche di amicizia, solidarietà e misericordia. L’ultimo dei quattro racconti, infine, parla di un viaggio verso i ricordi del passato, attraverso i nomi degli amici di un tempo che andrà ad incontrare.
La seconda parte, dedicata alle poesie, si snoda lungo un percorso logico che parte dal “distacco” del giovane Nazario dal suo paese e che si sofferma alle “terre” ovvero ai luoghi da lui praticati e vissuti, per passare poi ai “transiti”, che riguardano i suoi viaggi per e da Poggio Imperiale, il borgo, visto – in maniera quasi morbosa – sotto ogni profilo e sfumatura possibili, approdando infine alla “Terra”, quella Terra che rappresenta il fine ultimo al quale l’Autore anela: “… ti penso ogni giorno e ogni giorno te lo dirò, finchè metamorfosi non ci farà stessa luce …”, in “Madre Terra”, ed ancora: “perché il paese è una memoria cara, un tremito del cuore, un pensiero che non muore … ma tu l’ami, gli vuoi bene, ti batte il petto solo a dire il suo nome, a pensarlo …”, in “Soliloquio, ovvero: Tutt i vot ka vaje senza ji” (tutte le volte che vado senza andarci).
Nazario si è rivolto, per la prefazione di questo suo ultimo libro, complice l’Editore Peppino Tozzi, al quale vanno riconosciuti i meriti per l’impegno e gli sforzi profusi per mantenere alto il livello di cultura a Poggio Imperiale, a qualcuno che potesse “meglio compenetrarsi nelle delicate tematiche da lui affrontate”. Mi è stato dunque richiesto, bontà loro, di scrivere qualcosa in quanto, anch’io nativo di Poggio Imperiale, ho mantenuto forte l’attaccamento e l’amore per il mio paese di origine, nel quale ho trascorso la mia fanciullezza e la mia prima giovinezza, assaporando la gaiezza e la spensieratezza di quel tempo immemorabile che non ho mai più dimenticato. E il continuo rapporto che ho mantenuto e continuo a mantenere con il paese, con i parenti, gli amici di infanzia e con tutte le persone che ho avuto il piacere di incontrare e conoscere nella mia vita, non fanno altro che alimentare e consolidare al tempo stesso tali nobili sentimenti.
Ritorniamo ora al libro, per sottolineare alcuni altri aspetti che, non di meno, affiorano dalla sua lettura. L’Autore, a ben vedere, non si limita a trasmetterci solamente, come abbiamo già constatato, le proprie emozioni per effetto del distacco, la lontananza, il desiderio del ritorno, ponendo come fulcro della sua analisi il rilievo dell’appartenenza, ma sconfina – nel senso positivo del termine – nell’universo dei valori umani, non solo riferiti all’etica ma anche al carattere e all’integrazione con gli altri, palesando così, con malcelato orgoglio, il suo impegno sociale e cristiano: “… c’è della dignità imbarazzante nella povertà, spesso sconosciuta ai ricchi” – scrive l’Autore, aggiungendo, tuttavia – “… non c’è niente di peggio di un povero che, sgomitando nella competizione per emergere nella scala sociale, dà colpi nel fianco del suo vicino, al suo compagno …”. Ed ancora: “Primiano … un terreno di scontro con il padre che lo ammoniva con un ‘uagliò’!, un richiamo tenero a tenere i piedi per terra … sapendo che il figliolo aveva complice ‘irresponsabile’ il nonno… che lo incitava … a non desistere, a provarci, come volendogli dire, lui aveva superato sia la sua età che quella di suo padre, che aveva sperimentato l’esaltazione del sogno, la saggezza di non inseguirlo e l’amarezza per non averlo fatto, che forse non vale la pena abbandonare i sogni, anche quando sembrano irrealizzabili, perché alla fine nulla sarà più grande e promettente di essi”; ed ancora: “il chierico più stupido porta la croce … nella vita non conta l’alpinismo sociale, il retaggio, i soldi … [conta] la solidarietà, la giustizia, stare dalla parte degli ultimi e con gli ultimi portare la bandiera del riscatto sociale, dell’appartenenza … ammirare il Cireneo … ama il prossimo tuo … o gli uomini impareranno ad amarsi o periremo tutti insieme … ”; ed ancora: “… alla nuda terra, nudo consegnato … così come al mondo sono arrivato, e per fiore su di me addormentato, piantate un verde albero di ulivo, perché a lui io sia intrecciato …”; ed ancora: “… era una sorta di lezione di vita [quella di nonna Chela] perché preannunciava al pargolo una legge sociale, ed umana al tempo stesso, della quale crescendo avrebbe dovuto prendere coscienza …”.
E, per finire, non ci si può esimere dal far cenno alla tutela dell’ambiente e alla conseguente necessità di preservare la Natura dagli sconsiderati attacchi dell’uomo: altro tema caldo, toccato dall’Autore, con il quale si chiude il cerchio e si viene ricondotti ineluttabilmente al punto di partenza, ovverosia alla considerazione dei valori della Terra e dunque dell’appartenenza. “ … Cosa non darei per appiattire questi cumuli di terra sventrata, queste ferite che imprigionato in un recinto dall’orizzonte parziale, precluso …”, scrive Nazario, riferendosi allo scempio paesaggistico perpetrato nel territorio di Poggio Imperiale e dintorni, per via dei notevoli “cumuli” di materiali provenienti dagli scavi delle cave di pietra. Ed ancora: “… L’orizzonte ci era stato già rubato con monti posticci di sassi e pena, terra sventrata, corpo squarciato dov’era il grano, l’ulivo … poi è arrivata nuova rivoluzione, catturare energia in forma di vento … tramuta il paesaggio in elica olandese, mostri pale sulla nostra vita … scelleratezza ha profanato filo d’erba, arcobaleno, terra e mare ….”. Qui l’Autore allude alle “pale eoliche” che hanno invaso buona parte del territorio e a Poggio Imperiale, in particolare, è presente un articolato complesso di produzione di energia alternativa denominato “parco eolico”.
Mi accingo ora a concludere il mio intervento con un’ultima citazione tratta dal libro di Nazario, qualche verso di una sua poesia scritta nel 1970, “La Zolla”, all’età di 16 anni, che reputo sia da intendere un po’come la password, la parola segreta, la chiave di accesso, per cogliere appieno quanto egli ha inteso qui palesare con le sue poesie e le sue storie:“… Per Michele, mio padre, la terra è come Dio, origine, ragione, madre e tal mi sento io …”.
Grazie e buona continuazione di serata ».
“Pensieri” di Rossella Lentinio

La sera di sabato 23 luglio 2016 a Poggio Imperiale è stato presentato al pubblico, presso il Centro Polivalente di viale Vittorio Veneto n°50, il libro di poesie di Rossella Lentinio dal titolo “Pensieri”.
L’interessante manifestazione, organizzata dall’Associazione Poggio Circuito Creativo e dalle Edizioni del Poggio, è stata patrocinata dal Comune di Poggio Imperiale, il cui Sindaco Alfonso D’Aloiso presente alla serata ha espresso, oltre ai saluti di rito, i sentimenti di apprezzamento per tutte le iniziative culturali promosse in paese, grazie anche agli impulsi propositivi dell’Editore Peppino Tozzi.
Relatori dell’evento sono stati Giucar Marcone, giornalista, poeta e scrittore; Concetta Pinnelli, scrittrice; Lorenzo Bove, appassionato di tradizioni e storia locale. Sono poi seguiti gli interventi di Alfonso Chiaromonte, scrittore e ricercatore storico; Peppino Tozzi, Editore; Rossella Lentinio, autrice del libro. Nel corso della serata, mirabilmente condotta da Krita Koritari, sono state declamate alcune delle poesie tratte dal libro “Pensieri”, a cura di alcune delle componenti del centro culturale Poggio Circuito Creativo, con dei piacevoli intermezzi musicali offerti dal bravo Dino Vitale.
Qui di seguito, viene riportata la relazione svolta da Lorenzo Bove.
«Siamo qui riuniti stasera per la presentazione del secondo libro della nostra compaesana Rossella Lentinio; si tratta questa volta di una raccolta di sue poesie inedite, pubblicate dalle Edizioni del Poggio nella collana “Emozioni” diretta dal giornalista e scrittore Giucar Marcone.
Leggere le poesie di Rossella Lentinio è un po’ come perdersi nella contemplazione di un mare calmo e sereno, accarezzato da una lieve e piacevole brezza; è come passeggiare in verdi prati e soffermarsi ad ammirare le bellezze della natura pura e incontaminata; è come confondersi nell’infinito di un cielo stellato di una notte nitida e sgombra da qualsiasi nuvola.
La semplicità, la delicatezza e la purezza dei sentimenti che traspaiono dai suoi versi, palesano la potenza della sua forza interiore, mettendo in luce i suoi sentimenti più profondi, e l’amore in particolare.
L’amore nel suo significato più generale e l’amore come riferimento intimo e personale.
L’amore per il fratello che … “un destino avverso ha voluto che tu ci lasciassi troppo presto … Ora: quando guarderemo il cielo e conteremo le stelle, sapremo che tu sei una di loro che veglia su di noi e ci protegge. La più luminosa, la più vicina”, in “A Fabrizio”.
L’amore per il padre, anch’egli venuto a mancare successivamente, … “ricordi di vita spezzata”, in “Pensieri”.
L’amore per la madre … “Ti adoro stella che mi guidi nella mia vita”, in “Piccoli frammenti”.
L’amore per il fidanzato … “Sei tu il mio dono che dà alla mia vita un senso …”, in “Dedicata a te”.
L’amore per la natura, in “Se fossi un seme”, ove l’autrice spazia con la fantasia in un processo di metapsicosi , immaginando di poter trasmigrare in un altro corpo fisico … vegetale, animale o minerale che sia, reincarnandosi in un seme o in una farfalla od anche in un’onda del mare. E in queste sue nuove dimensioni, alimentata e sostenuta dalla forza dell’amore, compiere cose semplici e strabilianti al tempo stesso. Come seme … “tramutandomi in un bellissimo fiore, profumo della tua dolcissima essenza “; come farfalla … “volerei nell’aria limpida e serena, per posarmi su di te, su quel seme divenuto fiore”; come onda … “ti travolgerei nel mare del mio cuore”.
L’amore per la vita, il desiderio di farcela e di riuscire a raggiungere i traguardi ambiti, quasi per esorcizzare soggezioni di qualunque natura, rimuovere paure, superare le indecisioni … e provare a vincere. Ne troviamo tracce in diverse poesie: … “Se cadi rialzati, perché nulla è perduto e continua a proseguire: è la tua strada. La vita ti è vicina, combatti con coraggio, arriverai al bel miraggio, è la vittoria che ti viene ad abbracciare e a darti un altro dono per aver lottato e per aver raggiunto la tua vetta amata”, in “La vita”. Ed ancora … “Anche se a volte al timone di questa barca, mi soggiunge un po’ di paura, e la mia meta è ancora insicura. All’improvviso il mio cuor si rinfranca, e si accende in me la speranza, che questo navigare nel mare della vita, è forte gioir della mia riuscita”, in “Mare di vita”. Ed ancora … “Stella che sei lassù nei cieli … stammi vicino, rendi più facile il mio cammino, porta un messaggio a che ti ha creata e digli che la mia vita è più bella perché posso contare su di te”, in “La stella”. Nel commento a quest’ultima poesia, l’autrice sottolinea che “La stella rappresenta le speranze di ciascuno di noi di vedere realizzati i propri desideri e infine ringrazio Dio di aver creato questo astro luminoso”.
L’amore per la sua terra, per il suo amato paesello, Poggio Imperiale … “Il vento che accarezza queste tue colline estese, fa di te un dolce paese … La tua aria così salutare, fa di te un paese ideale …, in “A Poggio Imperiale”.
Ma le poesie di Rossella Lentinio spaziano pure su altre tematiche, anche se il filo conduttore rimane sempre l’amore, nel suo valore assoluto.
Vi è il ripudio della guerra e la pietà per le vittime innocenti … “Questa realtà non è per niente bella: perché c’è la guerra. Provo un immenso dolore che trafigge il mio cuore. E’ come una lama di coltello che mi s’impunta nel petto. Sono allibita per la morte di quel bambino … così fragile e piccolino. Come un germoglio appena fiorito e già caduto a terra appassito … “, in “La guerra”. Ed ancora … “Occhi di piccoli innocenti …sono piccoli angeli che piangono impauriti. I loro sogni infranti … per colpa di uomini prepotenti … quei bambini resteranno sempre nella nostra memoria”, in “Occhi innocenti”, dedicata alla strage dei bambini vittime del nazismo.
Vi è poi la donna: una lode a tutte le donne … “a volte capricciosa ma per i figli è disposta a far qualunque cosa”, in “La donna”.
Vi sono anche tre delle quattro stagioni: “Primavera”, un vero inno alla vita … “Tutto si rinnova, è come girare una pagina nuova, che ti incita a vivere”; “Estate” … “estate calorosa, che ci porti allegria e tanta simpatia”; “Inverno”, ove l’autrice evidenzia, nel suo commento, “il pessimismo della vita paragonato alla fredda stagione invernale”. Ma anche qui, a ben vedere, traspare – seppure in maniera molto velata – l’ottimismo della speranza. Infatti, laddove si narra che …“Nella folla c’è un vecchietto che soffre fame e freddo, senza tetto e senza amore. Quanto gelo avrà in fondo al suo cuore, il suo tempo se ne sta andando, vorrebbe qualcuno al suo fianco …”, emerge forte il desiderio e la speranza del vecchietto di vivere, di sentire il calore, l’affetto e l’amore di persone amiche … e poi, magari, lasciare questo mondo, a suo modo felice, contento ed appagato.
Vi è infine la solitudine, raccontata sulla scorta della propria esperienza personale in età adolescenziale: “Sono sola in una grande stanza, quello che mi manca è un’amica, di giochi e di vita, che mi incoraggi e che mi sappia amare, che mi tiri su di morale … , in “La solitudine”. Anche in questa occasione sembrano scorgersi sintomi di pessimismo, che vengono tuttavia smentiti poi, leggendo la poesia “Mamma”, scritta evidentemente molti anni dopo. Qui si rinvengono elementi che dimostrano che proprio quei suoi desideri sono stati pienamente esauditi da una persona a lei tanto cara, che oltre ad esserle madre è stata anche la sua vera amica del cuore, che l’ha sempre incoraggiata e amata, oltre a tirarla su di morale. Leggiamo insieme alcuni versi: “Tu sei l’unica, la sola, che mi sprona e mi incita ad andare avanti, a non arrestarmi mai dicendomi: dai che ce la farai. Abbiamo percorso strade ardue insieme, ti tenevo la mano ben stretta, sicura che mi avresti protetta, così è stato, qualsiasi ostacolo col tuo amore l’ho superato. Ti ammiro mamma, ti adoro”.
E, dunque, ancora “amore”, sempre “amore”, un rapporto duale basato su uno scambio emotivo generato dal bisogno fisiologico della gratificazione e dal bisogno dello scambio affettivo. E l’amore è davvero una forza e una energia che riesce a dare un senso profondo alla nostra vita.
A Rossella Lentinio gli auguri di un futuro raggiante sia sotto il profilo personale che per quanto attiene agli sviluppi professionali e, perché no, anche artistici, dopo la pubblicazione del suo primo libro dal titolo “Un sogno megagalattico” e di quest’ultimo di poesie dal titolo “Pensieri”, che questa sera stiamo presentando.
Grazie e buona serata a tutti ».
I centocinque anni di zia Nannina …

Centocinque anni ben portati, molta lucidità e tanti ricordi della sua lunga vita da raccontare.
Giovanna Galullo, vedova Fusco, per tutti Nannina, è nata a Poggio Imperiale in provincia di Foggia il 24 giugno 1911 da Primiano Galullo e Primiana Bubici, e gode tuttora di discreta salute, pur nella considerazione di qualche inevitabile problema legato all’età avanzata.
Il giorno 24 giugno 2016, nella ricorrenza della festività di san Giovanni Battista, la zia Nannina festeggia il suo centocinquesimo compleanno, coincidente anche con il suo onomastico.
Attualmente è qui a Sesto San Giovanni, ospite della figlia Pompea Anna, e quindi abbiamo colto l’occasione per farle visita.
Ci ha accolto con molto piacere e, sorprendentemente, non solo ci ha subito riconosciuti, ma ha rievocato con noi i tempi andati, con molta lucidità, citando fatti, date, circostanze e nomi di persone delle quali faceva specifico riferimento.
Naturalmente si è parlato, per lo più, di ricordi comuni considerando, per un verso che le nostre famiglie abitavano nella stessa via De Cicco, ed erano dunque vicine di casa, e, per l’altro, che con la famiglia di mia moglie vi è anche un rapporto di parentela, in quanto il marito Nicola Placido Fusco era cugino di primo grado di mio suocero Michele Palmieri.
Zia Nannina andò sposa a 23 anni a Nicola Placido, che di anni ne aveva 24 in quanto nato il 5 ottobre 1910, e le nozze furono celebrate a Poggio Imperiale nella chiesa di san Placido Martire nell’ottobre del 1934.
Il suo abito nuziale venne confezionato dalla sarta poggioimperialese Vincenza Savino, che viene ricordata come un vero talento per l’epoca e che era circondata da molte ragazze apprendiste del paese, tra le quali mia suocera Elena Ciampa nata il 18 aprile 1916. E toccò proprio a lei, assieme con qualche altra ragazza, provvedere alla consegna del vestito alla sposa. Sembrerà banale, ma da quanto ci viene riferito, si trattava di un rito formale molto delicato ed importante, che la maestra di cucito affidava esclusivamente alle allieve più brave ed affidabili … rammentando loro che alla sposa bisognava dire: “ Augurij(e) e parauànt(e)”, che significava semplicemente : “auguri e dacci la mancia”.
Dal loro matrimonio nacquero cinque figli: Gina e Pompea Anna (gemelle) nel 1935, Matteo nel 1939, Primiano nel 1947 e Michele nel 1954.
Ci furono anni difficili, la guerra (il marito venne inviato in Libia, nel Nordafrica), i sacrifici, le privazioni, poi finalmente l’assunzione nelle Ferrovie dello stesso Nicola Placido e la sistemazione di tutta la famiglia a Cervaro nei pressi di Foggia, con alloggio in una casa cantoniera (casello ferroviario), e poi il trasferimento al Nord, a Cantù in provincia di Como.
E successivamente, dopo la pensione, il ritorno in paese, dove qualche tempo dopo, il 23 luglio 1984, Nicola Placido lasciò la sua vita terrena e dove le sue spoglie mortali riposano nel locale cimitero.
Sono ancora vivi in me i ricordi della mia fanciullezza trascorsa a Poggio Imperiale, e rammento i buoni e cordiali rapporti che intercorrevano tra le nostre famiglie e con gli altri vicini di casa; un clima sereno fondato sulla stima e la solidarietà. E i giochi e le marachelle con Primiano, che dei cinque figli è quasi mio coetaneo (io sono due anni più vecchio).
Ma ricordo con molto piacere anche il periodo in cui risiedevano a Cantù, quando ogni tanto andavamo con i miei suoceri a trovarli, e mi tornano ancora alla mente le “pizzate” che zia Nannina improvvisava nel loro orticello e la sua squisita e straordinaria ospitalità.
Nell’occasione della nostra recente visita alla zia Nannina, qui a Sesto San Giovanni, la figlia Pompea Anna ha voluto suggellare l’incontro offrendoci dei gustosissimi “poperati”, uno dei nostri tipici dolci paesani, da lei preparati appositamente; un segno tangibile del nostro comune attaccamento alle radici e alle tradizioni terranovesi, che assume particolare rilevanza proprio per la presenza della nostra ultracentenaria che incarna non solo le radici e le tradizioni, ma anche una buona parte della storia del nostro amato paesello.
I nostri più fervidi auguri alla cara zia Nannina, perché voglia compiacersi di continuare a farci gioire della sua presenza fra di noi per tutto il tempo che le verrà ancora concesso di godersi l’affetto di quanti le vogliono bene e le sono premurosamente vicini.