U scijore de prezzecocche

Lorenzo Bove
U scijore de prezecocche
Dal manoscritto di Antonietta Chiaromonte
Un nuovo libro di Lorenzo Bove sui detti, proverbi e modi di dire del dialetto Tarnuèse (degli abitanti di Tarranòve), Poggio Imperiale in provincia di Foggia, perché “Lasciare che il tempo e l’incuria della gente permetta che le opere del passato, le gesta dei popoli antichi, gli usi e i costumi, le usanze e le tradizioni finiscano con l’essere a poco a poco coperti dalla polvere dell’oblio, fino a svanire inesorabilmente dalla mappa delle umane conoscenze, rappresenta davvero un crudele destino” (Cfr. Lorenzo Bove, ‘Ddummànne a l’acquarùle se l’acqu’è fréscijche’. Detti, motti, proverbi e modi di dire tarnuése. Edizioni del Poggio, 2008, Seconda Edizione, ristampa 2010)
Dalla quarta di copertina:
«Detti, motti, proverbi e modi di dire, nonché filastrocche, di Tarranòve, un piccolo Borgo dell’Alto Tavoliere, in terra di Capitanata, sorto verso la metà del 1700, annotati nel tempo e con molta pazienza da Antonietta Chiaromonte, giorno dopo giorno su di un quadernetto a quadretti, onde evitare che alcuni termini potessero svanire dalla memoria, e gelosamente custoditi.
E, poi, la scintilla del sacro fuoco delle emozioni, che ti porta a credere nelle cose che stai facendo, ritenendole giuste ed utili non per fini meramente personali, o per pura autoreferenzialità, bensì come contributo di conoscenza per le future generazioni, ritenendo che proprio quella della conoscenza sia la strada migliore per potere affrontare con cognizione di causa le situazioni presenti e future.
Le emozioni sono alla base di tutti i sentimenti e sono universali per tutti gli esseri umani.
Il sentimento è un’emozione pensata, ragionata; è la presa di coscienza dell’emozione che lo genera.
L’arte è un linguaggio potente che permette di esprimere e comunicare emozioni in modo unico ed evocativo.
Il dialetto, i detti, i motti, i proverbi e modi di dire, nonché le filastrocche, fanno parte, a pieno titolo, del patrimonio immateriale dell’umanità.
E così, con percepibile trepidazione da parte dell’interessata, quello ‘scrigno’ segreto è stato infine aperto, per condividerne il contenuto e consentire la sua rielaborazione in un testo organico ed ampiamente commentato, onde rendere maggiormente decifrabili, leggibili e comprensibili i termini dialettali tarnuìse riportati, e scoprire allo stesso tempo il loro significato e la loro possibile origine, sullo sfondo degli usi e costumi e delle tradizioni di questa piccola comunità».

Questo libro è autoprodotto e stampato per conto esclusivo dell’autore ‘in limited edition’ (in edizione limitata) ed è dedicato prevalentemente alla ristretta cerchia delle persone più care nonché agli appassionati di tradizioni e storia locale interessati.
È vietata la copia e la riproduzione in qualsiasi forma dei contenuti e delle immagini, nonché la loro pubblicazione se non autorizzata espressamente dall’autore medesimo.
Copyright © 2025 Lorenzo Bove
Tutti i diritti riservati.
Stampato nel mese di marzo 2025 presso GR SERVICE Via Veneto, 21/23 35020 Due Carrare (PD) +39 049629967 info@gr-service.it
Inoltre, di questo libro è stato autoprodotto anche un eBook in formato digitale, che viene offerto gratuitamente in lettura su questo stesso Sito/Blog www.paginedipoggio.com alla Pagina:
EBOOK (scarica,sfoglia e leggi)

Il grande bluff

(Il grande imbroglio)
Il “Liberation day” del 3 aprile scorso di Donald Trump, il nuovo (rinnovato) Presidente degli Stati Uniti d’America, che ha comportato una colossale “sparata” di dazi, a più non posso, dà l’idea di un vero e proprio “assalto alla diligenza”, nel ricordo dei vecchi film di cow boy di un tempo passato.
Una follia!
Vogliono negoziare la sostenibilità del debito pubblico americano e la svalutazione del dollaro per accaparrare risparmi stranieri (europei compresi) e attrarre negli Usa investimenti finalizzati alla reindustrializzazione generale.
“La paura sbarca a Wall Street, ma Lui gioca a golf”.
“Le Borse bruciano miliardi”.
“Un tonfo sui mercati con rari precedenti, con i listini europei che bruciano 890 miliardi e Wall Street che ne perde 2.000”.
Questi i titoli dei giornali di tutto il mondo.
Ma le Borse bruciano davvero i miliardi?
Come funzionano davvero i mercati finanziari?
L’espressione è spesso usata dai “media”, ma non è tecnicamente corretta; questo non significa però che non ci siano stati danni per gli investitori e per i risparmiatori.
Si tratta di un’espressione diffusa nel linguaggio dei “media” che evoca nella nostra mente una montagna di banconote ridotte in cenere senza la possibilità di essere più recuperate. In realtà non è così, dal punto di vista economico, infatti, si tratta di un’espressione che non ha un vero senso. I miliardi dei titoli, infatti, non sono “bruciati”, cioè non sono scomparsi: sono in realtà passati di mano perché nei mercati finanziari generalmente se qualcuno perde c’è sempre qualcuno che ci guadagna.
E qui casca l’asino!
Facciamo prima un necessario distinguo:
Il crollo delle Borse può dipendere da un caso fortuito o di forza maggiore, a seguito cioè di eventi imprevisti ed imprevedibili (guerre, pandemie, disastri, attentati del tipo di quello alle Torri gemelle, etc.), ovvero da situazioni di altra natura, anch’esse imprevedibili, ma non impossibili, ed a volte volutamente provocate ad arte!
Sicuramente la seconda casistica delle ipotesi enunciate risulterebbe assai più complicata per la sua realizzazione, nel solo immaginare la possibilità di elusione di tutti i sistemi di sicurezza e controllo esistenti al riguardo.
Tuttavia nulla è impossibile, soprattutto quando si hanno in mano le “leve del potere” e si attivano arbitrariamente prevaricazioni in barba all’ordine costituito delle cose, in nome di un presunto mandato popolare illimitato e senza confini.
Fantasia, si dirà; si è vero, semplicemente fantasia!
Tuttavia una spiegazione deve pur esserci in questi frangenti: il passaggio di mano dei miliardi “bruciati” c’è stato ed è tutt’ora in atto.
Nelle mai di chi sono finiti?
E chi ne è l’artefice?
Il “Liberation day” è stato voluto e non si tratta certamente di un caso fortuito o di forza maggiore; e chi ne aveva previsto gli effetti ha avuto anche tutto il tempo per mettere in salvo i propri investimenti, pronto poi a reinvestire sui titoli a ribasso.
Ai posteri l’ardua sentenza.

L’inizio del Terzo Millennio non ci offre nulla di nuovo!

È vero!
Non si finisce mai di stupirsi.
Pensavamo, dopo l’ultima epidemia dell’inizio del secolo scorso, la cosiddetta Spagnola, che aveva mietuto vittime a più non posso, che mai più ci saremmo fatti prendere alla sprovvista e che con i progressi della scienza e la “tecnologia che avanzava”, saremmo stati in grado di prevenire, per tempo, qualunque situazione di rischio epidemico per l’umanità intera.
E soprattutto dopo che l’uomo aveva messo piede sulla Luna.
Eravamo alla fine del secondo millennio.
Ad un secolo di distanza, all’inizio del terzo millennio, puntualmente, è tutto come prima, alla lettera: il Covid, la recente nuova epidemia, ci ha spiazzati completamente e ancora una volta ha spazzato via tante vite umane, come se nulla fosse.
Dopo le disastrose due ultime Guerre Mondiali, della fine del secondo millennio, avevamo giurato che mai più gli esseri umani sarebbero scaduti a carne da macello per l’avidità e la bramosia di conquiste da parte “degli uni contro gli altri armati”, attraverso occupazioni, deportazioni, genocidi, campi di concentramento et similia.
E l’Onu, la Nato e le tante organizzazioni di pace hanno contribuito a mitigare “i bollenti spiriti” che ogni tanto si accendevano qua e là.
Era prevalsa la ragione sulla forza. O, per lo meno, così sembrava.
Nuove Costituzioni illuminate, Repubbliche parlamentari ed ancora alcune Monarchie, anch’esse comunque costituzionali – parlamentari, sovranità popolari, libere elezioni, bilanciamento dei poteri con pesi e contrappesi, tripartizione dei Poteri della Stato (Legislativo, Esecutivo e Giudiziario).
In altre parole: Democrazia.
La democrazia (dal greco antico: démos, “popolo” e, krátos, “potere”) etimologicamente significa “governo del popolo”, ovvero forma di governo e valori sociali in cui la sovranità è esercitata, direttamente o indirettamente, dal popolo, che generalmente è identificato come l’insieme dei cittadini.
Ma l’inizio del terzo millennio sembra aver risvegliato gli uomini (ed è il caso di dirlo: anche le donne!) da una sorta di torpore. E, quindi, piano piano, in sordina, come il fuoco delle braci, che improvvisamente riprende vigore dopo aver covato, silente, sotto la cenere, ecco che i vecchi istinti, mai del tutto sopiti, ricominciano a riprendere vigore.
Alcuni sentori in Turchia con il Presidente Erdogan e, in piena Europa con il Presidente Orban in Ungheria; ma è soprattutto la Russia del Presidente Putin che ha completamente rotto gli argini del rispetto reciproco delle regole del gioco, invadendo territori “sovrani”, sulle tracce di un passato ormai perduto e all’insegna di una pretesa restaurazione del potere “degli Zar di tutte le Russie”, risorti dalle loro vestigia e reincarnati nel nuovo Zar Vladimir Putin. E l’ultima sua invasione, in ordine di tempo, riguarda l’Ucraina, con una guerra che va avanti ormai da oltre tre anni, nel mentre il fuoco della belligeranza continua a divampare anche nella Striscia di Gaza, tra Israele e Palestina; altra diatriba mai risolta!
E, negli Stati Uniti d’America, ritorna il Presidente Trump, per il suo secondo mandato, intervallato dai quattro anni di presidenza Biden, minacciando occupazioni: Canada, Groenlandia, Messico, Canale di Panama ed altro; dazi dal 25 al 200 per cento; abbandono dei tavoli delle Alleanze, facendo carta straccia dei trattati e delle convenzioni internazionali, con deportazioni in massa dei migranti.
Riguardo ai dazi e alla guerra ai prodotti stranieri (Europa compresa), in economia l’autarchia è l’autosufficienza (o presunta tale) economica di una nazione, raggiunta tramite l’indipendenza assoluta o relativa dell’economia nazionale e la riduzione degli scambi con altri paesi. Una condizione che molto spesso si rivela un vero e proprio boomerang per chi la pratica.
Inoltre, Trump rinnega le leggi federali approvate in Congresso e le stesse sentenze della Corte Suprema circa gli obiettivi di equità fissati dalla Costituzione in alcuni emendamenti. È il trionfo del pregiudizio della superiorità dell’uomo bianco a cui spetta (!) per diritto divino il comando.
Oggi Tramp e Putin mostrano un certo riavvicinamento prendendo spunto dal conflitto in Ucraina, che – secondo il Presidente americano – potrà cessare solo ad opera sua, con il beneplacito di quello russo.
Cosa si sono detti veramente fra di loro, nel privato, non è dato sapere, ma il tutto lascia trasparire che ci sia in ballo la spartizione di beni preziosi (terre rare, gas e altro), oltre all’appetibile ricostruzione dei territori devastati dalla guerra. E, molto più in generale, è in ballo un nuovo equilibrio mondiale, tant’è che anche la Cina comincia a dare i suoi primi segnali di irrequietezza.
Che fra il Presidente americano Donald Trump e quello russo Vladimir Putin, vi sia una certa intesa, una sorta di “affinità elettiva”, è innegabile, dal momento che lo dichiarano a chiare lettere i diretti interessati. Ma quali sono le ragioni di questa intesa? Quali fattori la rendono possibile? Dal punto di vista degli studiosi di psicopolitica, riportato dalla stampa internazionale, Trump e Putin sono due figure politiche che, nonostante le differenze culturali e biografiche, mostrano alcune significative somiglianze nel loro approccio alla leadership e alla gestione del potere. Somiglianze che possono spiegare il motivo per cui i due leader hanno spesso trovato un terreno comune nella loro reciprocità, e probabilmente ancora di più lo troveranno in futuro.
Ad esempio, entrambi dimostrano una spiccata tendenza verso un approccio autoritario nella gestione del potere, neutralizzando gli oppositori politici, con un accentramento del potere stesso, sfidando apertamente le istituzioni e i media che criticano il loro operato.
Putin, in particolare, ha consolidato il suo controllo sulla Russia attraverso la centralizzazione del potere.
Entrambi utilizzano i media come strumento di propaganda, per rafforzare la loro immagine e influenzare l’opinione pubblica. Un certo tratto di narcisismo mediatico li accomuna, facendo leva sul nazionalismo e sul populismo per consolidare il loro potere.
Putin ha promosso un forte senso di orgoglio nazionale e ha utilizzato la retorica anti-occidentale per unire il popolo russo sotto la sua leadership; Trump ha adottato a sua volta una retorica populista, promettendo di “rendere l’America grande di nuovo” e di proteggere gli interessi dei cittadini comuni americani contro le élite politiche ed economiche.
E, purtroppo, questi due modi di essere fanno tendenza e molti sono i loro sostenitori, supporter, ammiratori, fanatici, soprattutto tra i personaggi politici che tendenzialmente, in giro per il mondo (Italia compresa), cominciano ad emularli.
L’inizio del Terzo Millennio non ci offre, quindi, nulla di nuovo!
Sembra essere ripiombati nel passato, in un tremendo “déjà vu”, quel fenomeno psichico rientrante nelle forme d’alterazione dei ricordi (paramnesie), che provoca la sensazione di un’esperienza precedentemente vista.
Stiamo attraversando davvero un brutto momento e dobbiamo cercare di tener duro, senza lasciarci prendere dallo sconforto, ma nemmeno da facili entusiasmi, cercando soprattutto di tenere la barra dritta sui valori fondanti della democrazia.
In Europa qualcosa si sta muovendo nel verso giusto, soprattutto ad iniziativa del Presidente francese Emmanuel Macron e del Cancelliere tedesco (in pectore) Friedrich Merz, con l’appoggio (esterno) del Premier inglese Keir Starmer, e l’Italia deve dar voce a quella forza propulsiva che ispirò Spinelli e De Gasperi, tra i padri fondatori, verso la concreta realizzazione di un’Europa unita, basata su ideali condivisi e con un comune “idem sentire”, ove ciascuno degli Stati membri sia disposto a cedere una parte della propria sovranità nazionale per costituirne un’altra più estesa, quella dell’intero popolo europeo, ove ogni cittadino della comunità possa veramente riconoscersi.
La speranza è sempre l’ultima a morire!

Foto di repertorio da Internet
Le Foibe imbrattate con scritte vandaliche

Non solo per le vittime dell’Olocausto per mano nazifascista, che commemoriamo nella ricorrenza del “Giorno della Memoria” del 27 gennaio, ma anche per quelle massacrate e gettate nelle cavità carsiche per mano comunista, ricorre domani il loro “Giorno del Ricordo”.
Il 10 febbraio di ogni anno si celebra infatti il “Giorno del Ricordo”, ricorrenza istituita con la legge n. 92 del 30 marzo 2004 per conservare e rinnovare la memoria delle Vittime delle Foibe e dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati di origine italiana all’indomani della seconda guerra mondiale.
La data prescelta del 10 febbraio si riferisce al giorno in cui, nel 1947, furono firmati i trattati di pace di Parigi, che assegnarono alla Jugoslavia l’Istria, il Quarnaro, la città di Zara con la sua provincia e la maggior parte della Venezia Giulia, che in precedenza facevano parte dell’Italia.
Purtroppo, nella giornata di ieri, sabato 8 febbraio 2025, atti vandalici a Trieste hanno infangato la memoria delle vittime e fomentato un clima d’odio. Tre scritte in lingua slava sono comparse alla Foiba di Basovizza dove era in programma una cerimonia, a poche ore dal “Giorno del Ricordo”.
Una ferma condanna si è levata da ogni parte per l’atto di vandalismo che oltre ad oltraggiare la memoria delle vittime delle Foibe, mira a giustificare chi ha brutalmente ucciso uomini, donne e bambini solo perché italiani. Un gesto inaccettabile, che tenta di minare il dialogo tra popoli che vogliono costruire un futuro di pace.
Le tre scritte in slavo tradotte in italiano:
“Trieste è nostra”; “Trieste è un pozzo”; “Morte al fascismo libertà al popolo”; segue anche un numero: “161”.
Per comprendere il significato del numero 161, “è necessario immergersi nel sottobosco dei gruppi antagonisti presenti in Europa. Il numero “161” infatti è usato come codice numerico corrispondente alle parole ‘azione antifascista’. Intendendo per ogni lettera il corrispondente numero rispetto all’ordine dell’alfabeto (A=1, F=6). Tale “acronimo numerico” vien a volte usato in contrapposizione al numero 88, codice utilizzato tra i neonazisti per intendere il saluto Heil Hitler, con H=8 secondo la stessa procedura numerica (161>88). Si tratta di un codice non ancora molto diffuso in Italia rispetto ad altre zone d’Europa, dove molto spesso viene utilizzato assieme a un altro acronimo numerico: il 1312, cifra che sta a significare All Cops Are Bastards (A=1, C=3, A=1 e B=2) [Tutti i poliziotti sono bastardi]” (Cfr. Triestenews https://www.triesteallnews.it/2025/02/cosa-significa-161-la-firma-trovata-in-calce-alle-scritte-sulla-foiba-di-basovizza/ ).
Ieri 8 febbraio 2025 il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, accolto a Villa Pilpolze dalla Presidente della Repubblica di Slovenia Natasa Pirc Musa, ha colto un’occasione molto speciale (antivigilia del “Giorno del Ricordo” a Nova Gorica) per mandare un messaggio all’Europa: “In un mondo caratterizzato da crescenti tensioni e conflitti, dall’abbandono della cooperazione come elemento fondante della vita internazionale, Slovenia e Italia hanno saputo dimostrare che è possibile scegliere la via della cooperazione. Nella tragedia della Seconda guerra mondiale, un sopravvissuto ad Auschwitz, Roman Kent, ha osservato: ‘Non vogliamo che il nostro passato sia il futuro dei nostri figli’. Con questo spirito abbiamo affrontato le pagine del Dopoguerra, per scriverne una nuova e nulla può far tornare indietro la storia che abbiamo scritto e scriviamo insieme”.
Nova Gorica – Gorizia: Capitale della Cultura Europea 2025; un esempio di cooperazione.
“La città slovena (Nova Gorica) ha voluto lanciare con la gemella Gorizia una sfida: proporsi come esperienza di cultura attraverso la frontiera. Se la cultura, per definizione, non conosce confini, essa nasce pur sempre come espressione di una comunità ma aperta alla conoscenza, alla ricerca comune, ai reciproci arricchimenti“. Così il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel suo intervento all’inaugurazione di Nova Gorica-Gorizia.

Scritte vandaliche
Foto di repertorio da Internet
Per una più approfondita visione del fenomeno delle foibe, riporto qui di seguito un mio articolo scritto e pubblicato il 10 febbraio 2019 sul Sito/Blog
https://www.paginedipoggio.com/?p=4843
10 febbraio, il “Giorno del Ricordo” delle vittime delle foibe
In occasione dell’anniversario del Giorno del Ricordo di quest’anno, il Capo dello Stato Sergio Mattarella ha ricordato che, mentre il mondo si avviava al “graduale ritorno alla libertà e alla democrazia, un destino di ulteriore sofferenza attendeva gli italiani” nelle zone occupate dalle truppe jugoslave: “Non si trattò di una ritorsione. Non erano fascisti in fuga, erano semplicemente italiani”. E poi ha parlato dell’Unione Europea: “Nacque per dire mai più fanatismi”.
Il Giorno del Ricordo è una solennità civile nazionale italiana, istituita con la legge 30 marzo 2004 n. 92, che viene celebrata il 10 febbraio di ogni anno con l’intento di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e dell’esodo durante la Seconda guerra mondiale e nell’immediato dopoguerra (1943-1945), con particolare riguardo alle persone soppresse e infoibate in Istria, a Fiume, in Dalmazia o nelle province dell’attuale confine orientale, dall’8 settembre 1943 (data dell’annuncio dell’entrata in vigore dell’armistizio di Cassibile), al 10 febbraio 1947 (giorno della firma dei trattati di pace). La data prescelta è il giorno in cui, nel 1947, furono firmati i trattati di pace di Parigi, che assegnavano alla Jugoslavia, l’Istria, il Quarnaro e la maggior parte della Venezia Giulia, in precedenza facenti parte dell’Italia.
Le foibe (e da esse infoibare) sono delle profonde cavità naturali carsiche nelle quali furono gettati molti dei corpi delle vittime; un termine proveniente dal dialetto giuliano e che trova origine nel latino fovea, ovvero fossa o cava.
I massacri delle foibe sono stati degli eccidi ai danni della popolazione della Venezia Giulia e della Dalmazia, avvenuti da parte dei partigiani jugoslavi e dell’OZNA (letteralmente “Dipartimento per la protezione del popolo” dei servizi segreti militari jugoslavi).
Al massacro delle foibe seguì l’esodo giuliano dalmata, ovvero l’emigrazione forzata della maggioranza dei cittadini di etnia e di lingua italiana dalla Venezia Giulia e dalla Dalmazia, territori del Regno d’Italia prima occupati dall’Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia del maresciallo Josip Broz Tito e successivamente annessi dalla Jugoslavia. Si stima che i giuliani, i fiumani e i dalmati italiani che emigrarono dalle loro terre di origine ammontino a un numero compreso tra le 250.000 e le 350.000 persone.
Per estensione i termini “foibe” e il neologismo “infoibare” sono diventati sinonimi di uccisioni che in realtà furono in massima parte perpetrate in modo diverso: la maggioranza delle vittime morì nei campi di prigionia jugoslavi o durante la deportazione verso di essi. Si stima che le vittime in Venezia Giulia e nella Dalmazia siano state circa 11.000, comprese le salme recuperate e quelle stimate, più i morti nei campi di concentramento jugoslavi.
Io e mia moglie abbiamo avuto modo di visitare la foiba di Basovizza in occasione di alcuni nostri soggiorni a Trieste e dintorni; si tratta di un inghiottitoio che si trova nella zona nord-est dell’altopiano del Carso a 377 metri di altitudine.
Nel periodo dell’occupazione jugoslava di Trieste in quella foiba fu gettato dai partigiani jugoslavi un numero imprecisato di persone e, a ricordo di tutte le vittime degli eccidi, sul luogo è stato edificato un monumento. Il presidente della Repubblica Italiana Oscar Luigi Scalfaro, nel 1992, ha dichiarato monumento nazionale il pozzo che, in origine, era un pozzo minerario: esso divenne però nel maggio del 1945 un luogo di esecuzioni sommarie per prigionieri, militari, poliziotti e civili, da parte dei partigiani comunisti di Tito, dapprima destinati ai campi d’internamento allestiti in Slovenia e successivamente giustiziati a Basovizza.
Il ritorno (o riunificazione) di Trieste all’Italia avvenne in seguito agli accordi sottoscritti il 5 ottobre 1954 fra i governi d’Italia, del Regno Unito, degli Stati Uniti d’America e della Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia con il Memorandum di Londra, concernente lo status del Territorio Libero di Trieste; in particolare si stabiliva il passaggio di amministrazione della Zona A dall’amministrazione militare alleata all’amministrazione civile italiana e quindi passavano all’Italia i seguenti comuni della zona A: Duino, Aurisina, Sgonico, Monrupino, Trieste, Muggia, San Dorlingo della Valle.
Nella zona A erano presenti 5.000 soldati americani della TRUST (Trieste United States Troops) e 5.000 soldati britannici della BETFOR (British Element Trieste FORce). La presa di possesso della zona A avvenne il 26 ottobre 1954 e gli alleati si ritirarono tra il 25 e il 27 ottobre 1954.
Il Friuli Venezia Giulia è stata una delle zone più militarizzate d’Europa, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale alla caduta del Muro di Berlino: si calcola che circa tre milioni di persone abbiano svolto il servizio militare in quella regione e che ben 428 fossero i siti militari dislocati su 102 chilometri quadrati di territorio. Oggigiorno molte di quelle caserme sono in dismissione, dopo oltre mezzo secolo di presenza militare che ha segnato la vita di tanti italiani, anche civili, che hanno vissuto gomito a gomito con l’Esercito, come ristoratori delle trattorie nei pressi delle caserme, i fornai che ricordano come le caserme fossero a volte il pilastro dell’economia di un intero paese, i tabaccai, i postini a portar quintali di lettere. Ma anche la formazione di giovani coppie di innamorati (lui militare meridionale, lei friulana).
Anch’io conservo dei ricordi della mia permanenza a Trieste per servire la patria, come veniva denominato un tempo il servizio militare di leva obbligatorio e, in particolare, ricordo le esercitazioni militari e di tiro che svolgevamo sulle alture di Monrupino, nella zona montuosa di confine con la ex Jugoslavia. Ero dislocato alla Caserma di Polizia “Duca D’Aosta” in via Damiano Chiesa di Trieste, in zona San Giovanni.
E, da quello che è dato sapere, la Seconda guerra mondiale è passata anche dalla Caserma Duca d’Aosta, una ex caserma dell’Esercito divenuta successivamente Scuola di Polizia, lasciando una scia di sangue finita nel dimenticatoio. Ma, dall’ottobre 2012, l’area (di oltre 40.000 mq.) è stata decretata bene culturale particolarmente importante, ”esemplare testimone di un lungo periodo della storia particolare della nostra città e specialmente di momenti tragicamente drammatici e del dolore di tanti uomini e donne che vi sono transitati o vi hanno perso la vita in modo atroce”, condizione che rende molto difficile, se non addirittura impossibile, dismissioni o altre forme di speculazione edilizia.
Alla fine del XVII secolo, il sito risultava di proprietà della famiglia patrizia dei de Bonomo, mentre all’inizio del Novecento vi trovarono sviluppo diverse attività industriali come il pastificio Fratelli Girardelli Società Anonima in Trieste, la Fonderia Osvaldella e il colorificio Astra Società per Industria e Commercio a.g.l. con annessa fabbrica del ghiaccio.
Verso la fine del 1928 lo Stato acquistò l’intera area e dopo un intervento edilizio importante inaugurò la caserma intitolandola a Emanuele Filiberto Duca d’Aosta, quale sede del glorioso 34° Reggimento Artiglieria da Campagna, di cui rimane ancora oggi il prezioso monumento commemorativo che si trova ai bordi del piazzale della caserma.
Nel 1931 il comando venne assunto dal Principe Amedeo di Savoia Duca delle Puglie, figlio di Emanuele Filiberto di Savoia.
A maggio del 1939 il Reggimento assunse la denominazione di 23° Reggimento Artiglieria Sassari e tornò ad essere dal 1940 ancora 34° Reggimento Artiglieria Sassari.
L’8 settembre vide il dissolvimento di tutti gli assetti dello Stato italiano compreso il suo esercito e il 34° ”Sassari”, posto a difesa di Roma, venne sciolto e la caserma immediatamente occupata dalle SS tedesche, che la trasformano in un centro di arruolamento al Lavoro coatto della Todt (1).
Con la resa delle truppe tedesche, il 1° maggio del 1945, l’Armata Jugoslava occupò Trieste e il sito venne subito utilizzato dall’OZNA, la polizia segreta jugoslava, come luogo di prima detenzione, di interrogatorio e di tortura.
Molti civili e militari arrestati vennero portati alla Duca d’Aosta; tanti non fecero più ritorno alle loro case per essere stati avviati ai campi di concentramento prontamente realizzati in territorio sloveno o per essere destinati, attraverso sommarie esecuzioni, alle foibe.
Nel giro di poco tempo si alternarono dunque nazisti prima e armata titina dopo. E dentro sempre triestini vittime ora di uno e ora dell’altro.
Con l’arrivo delle truppe anglo americane la Caserma Duca d’Aosta venne occupata dal 351° Infantry Regiment con i Blu Devils, gli eroici diavoli blu americani e dal Genio Inglese con il 55° e il 66° Royal Engineers.
Quando il 25 ottobre del 1954 le truppe anglo-americane lasciarono Trieste, riconsegnandola definitivamente all’Italia, gli edifici della Duca d’Aosta vennero destinati al Corpo Guardie di Pubblica Sicurezza.
L’intera struttura dal 10 aprile del 1962, con decreto dell’allora Ministro dell’Interno Paolo Emilio Taviani, si trasformò definitivamente in Scuola Allievi Guardie di Pubblica Sicurezza, prezioso centro formativo nazionale tutt’ora utilizzata per la formazione degli Allievi Agenti della Polizia di Stato.
Nota (1)
Fritz Todt quale Ministro degli armamenti ed approvvigionamenti dell’esercito nazista concepì una organizzazione – chiamata appunto Todt – di lavoro coatto impiegando prigionieri di guerra al fine di realizzare strade e ponti di interesse militare, ma anche opere squisitamente militari. Un esempio di lavoro eseguito fu la famosa linea gotica, ma tantissimo questa impresa fece in Germania e nei paesi occupati impiegando una manovalanza a costo zero che arrivò fino al milione e mezzo di uomini. A Trieste la Todt aveva sede nel palazzo del Museo del Risorgimento che fu del tutto svuotato per fare posto a questa organizzazione tra i cui lavori troviamo anche parte della rete di gallerie nella zona del Tribunale e Scorcola nota come Kleine Berlin
Le notizie sulla caserma Duca D’Aosta, sopra riportate, sono desunte dalle ricerche storiche di Federica Verin, dipendente dell’Istituto di Polizia di Trieste, riportate in “La mia Trieste” https://www.lamiatrieste.com/2016/07/20/scuola-di-polizia-san-giovanni/
Il giorno della Memoria, ottant’anni dopo

Il Giorno della Memoria è una ricorrenza internazionale, celebrata il 27 gennaio di ogni anno come giornata per commemorare le vittime dell’Olocausto. È stato così designato dalla risoluzione 60/7 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 1° novembre 2005 durante la 42^ riunione plenaria. La risoluzione fu preceduta da una sessione speciale tenuta il 24 gennaio 2005 durante la quale l’Assemblea generale delle Nazioni Unite celebrò il sessantesimo anniversario della liberazione dei campi di concentramento nazisti e la fine della Shoah.
Si è stabilito di celebrare il Giorno della Memoria ogni 27 gennaio perché in quel giorno del 1945 (ottant’anni fa) le truppe dell’Armata Rossa, impegnate nell’operazione Vistola-Oder in direzione della Germania, liberarono il campo di concentramento di Auschwitz.
I Lager nazisti, i campi di concentramento e le deportazioni rappresentano quanto di più deleterio – e funesto al tempo stesso – possa l’uomo aver perpetrato nei riguardi del genere umano al quale egli stesso appartiene.
E il giorno della Memoria, che ricorre nella giornata odierna, deve farci riflettere sempre e comunque, ogni volta che si accenna ad un qualche conflitto, soprattutto in questo particolare e delicato momento storico in cui due grandi focolai bellici (quello russo-ucraino da un lato e quello israelo-palestinese dall’altro) sono all’attenzione di tutto il mondo, per gli effetti e le conseguenze che ne potrebbero derivare, se non mitigati dalla logica ed il buon senso, non solo da parte dei soggetti in campo, ma di tutti gli uomini di buona volontà.
Ho personalmente avuto l’opportunità di visitare nella primavera del 2007 lo Yad Vashem (1), il Museo dell’Olocausto di Gerusalemme, durante il mio viaggio in Terra Santa con mia moglie.
Una visita che meritava proprio quel pomeriggio di riflessione.
Tante foto, documenti, lettere, indumenti di ogni tipo, ricostruzione fedele di campi di concentramento e di tradotte (treni) militari, libri, oggetti personali dei deportati, ecc.
Lo Yad Vashem è il memoriale dei sei milioni di ebrei deportati e uccisi dai nazisti.
Una cosa davvero toccante, che ti lascia dentro un senso di pietà e di impotenza al tempo stesso, ma che ti scatena anche sentimenti di rabbia per tutto quanto è potuto accadere.
Ogni anno allo Yad Vashem viene celebrata una cerimonia ufficiale nella quale lo Stato di Israele e il popolo ebraico si uniscono nella memoria delle vittime dell’Olocausto.
Un luogo sacro da visitare in silenzio e senza alcuna fretta per prendere consapevolezza di un dramma di immane portata.
Anche Poggio Imperiale annovera tra i suoi caduti nel Secondo Conflitto Mondiale i concittadini Ernesto Braccia, Nicola Verzino e Giuseppe Zangardi, morti nei LAGER nazisti e, più precisamente, nei campi di concentramento e di prigionia di Dachau, Gross Lubars e Kaiserslauter, in Germania (2).
“Nei campi di concentramento nazisti sono stati commessi crimini di incredibile efferatezza. Tali crimini non furono commessi solo contro il popolo ebraico e gli altri popoli e categorie oppressi, ma contro tutta l’umanità, segnando una sorta di punto di non ritorno nella Storia. L’umanità esige che ciò che è avvenuto non accada più, in nessun luogo e in nessun tempo. E’ di enorme importanza che le nuove e future generazioni facciano proprio questo insegnamento nel modo più vivo e partecipato possibile, stimolando il dibattito, le domande, i “perché” indispensabili per la comprensione di quei tragici eventi. Favorendo noi una riflessione vivace nei ragazzi, renderemo forse il servizio migliore a questo Giorno che, per essere vissuto nel modo più autentico, necessita di un pensiero non statico, non nozionistico. Occorre fornire alle nuove generazione gli strumenti, anche empirici, per riflettere su cosa l’umanità è stata in grado di fare, perché non accada mai più. Questo, forse, è il senso più vero del Giorno della Memoria, ed è un bene prezioso per tutti” (3).

Foto di repertorio da Internet
(1) Il 21 ottobre 2008 ho pubblicato su questo mio stesso Sito https://www.paginedipoggio.com/?p=3131 un articolo dal titolo: “Yad Vashem il Museo dell’Olocausto: la didascalia contestata”.
(2) Il 7 febbraio 2010 ho pubblicato su questo mio stesso Sito https://www.paginedipoggio.com/?p=3088 l’articolo “Tre le vittime di Poggio Imperiale nei LAGER nazisti!”.
(3) Da “Il senso del Giorno della Memoria” di Renzo Gattegna, Presidente Unione Comunità Ebraiche Italiane, Sito internet: htpp://www.ucei.it/giornodella memoria.
Per eventuali commenti: => “leave a comment” (lascia un commento), qui sotto (cliccare sulla riga scura).
Giovanni Saitto, ancora due libri inediti sulla Famiglia Imperiale a Poggio Imperiale e in Capitanata.

Quando anche una buona lettura
può offrire elementi di distensione e di speranza
Il nuovo anno, il duemilaventicinque, si apre sotto gli auspici della ‘speranza’, in primis perché questo è il messaggio che ci arriva da Papa Francesco per l’ultimo Giubileo ‘ordinario’ della storia corrente, appena aperto, ed in secondo luogo, perché essa (la speranza), sebbene la più piccola delle tre virtù teologali (fede, speranza e carità), è ritenuta la più forte.
Papa Francesco è tornato più volte in questo periodo a parlare di speranza, ‘spronandoci a guardare con occhi nuovi la nostra esistenza, soprattutto ora che è sottoposta a dura prova, e guardarla attraverso gli occhi di Gesù, “l’autore della speranza”, affinché ci aiuti a superare questi giorni difficili, nella certezza che il buio si trasformi in luce’.
E bisogna essere davvero forti per non temere che qualcosa di veramente grave possa accadere nel Mondo, a fronte dei focolai di guerra in atto, in massima parte sul fronte ucraino e su quello mediorientale, oltre all’infinità di tensioni, più o meno preoccupanti, diffuse a macchia di leopardo, un po’ dovunque.
Anche il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel suo discorso di fine anno alla Nazione, ha parlato di ‘speranza’, coniugandola con la ‘pace’ e il ‘rispetto’.
Ha dell’assurdo quello che sta succedendo in giro, nonostante le buone intenzioni sbandierate ai quattro venti, da più parti, già a partire dalla fine del Secondo Conflitto Mondiale, ottant’anni fa.
E’ come se avessimo dimenticato tutto o, addirittura, come se nulla fosse successo, nonostante pagine e pagine di storia, filmati, documentari, convegni, dibattiti e quant’altro, stiano lì a dimostrare che la guerra è sempre e comunque una sconfitta per l’umanità, anche in caso di vittoria.
Ma non bisogna mai arrendersi e continuare caparbiamente a credere che per tutto c’è sempre una soluzione, un rimedio: l’essenziale è crederci.
E sono tante, fortunatamente, le persone che ci credono e si impegnano, anche senza bisogno di clamore, a scavare, approfondire, ricercare, collegare fatti e circostanze, per mettere in luce situazioni storiche del passato, al fine di conoscere, comprendere le motivazioni e le strategie che hanno indotto, di volta in volta, i popoli ad operare le loro scelte, soprattutto per portarle a conoscenza dei più, ritenendo che proprio quella della conoscenza, sia la strada migliore per avere una visione più aperta per affrontare le situazioni presenti e future.
E, questo, anche nel piccolo di una comunità, ove per una serie di prevedibili o imprevedibili circostanze, la storia si intreccia con quella di altre realtà, consentendo così di allargare la visuale di osservazione su di una dimensione più complessa ed articolata.
E, qui, con molto piacere, voglio volgere lo sguardo al mio paesello di nascita, Poggio Imperiale, un Borgo dell’Alto Tavoliere, in terra di Capitanata, sorto verso la metà del 1700 ad opera del Principe Placido Imperiale, ove confluirono persone provenienti da varie località, compresa una Colonia Albanese, spinte anche delle allettanti proposte offerte dal Principe medesimo.
E l’amico Gianni, Giovanni Saitto, cultore della Storia legata alla Capitanata, continua la sua opera di ricercatore e divulgatore di storia e tradizioni locali, aggiungendo alla sua Bibliografia due nuove pubblicazioni dedicate alla Famiglia genovese degli Imperiale, possessori dei feudi pugliesi di San Paolo, Lesina e Poggio Imperiale:

- Giovanni Saitto, “Sub Umbra Alarum Tuarum”. La Famiglia Imperiale di Genova, SUSIL edizioni.
‘Sotto l’ombra delle tue ali’, è un versetto biblico del Salmo 56 che campeggia nel blasone della famiglia genovese degli Imperiale.
Un libro che, per la sua valenza dinastico – genealogica, suscita vivo interesse e curiosità nel lettore avvezzo a questo tipo di filone storico.

- Giovanni Saitto, “Genovesi del ‘700 in Capitanata”. La Famiglia Imperiale, Feudataria di San Paolo, Lesina e Poggio Imperiale, SUSIL edizioni.
Un libro che, prendendo le mosse dal ‘Settecento in Capitanata’, regala al lettore un escursus attento e particolareggiato sui Feudi di San Paolo e di Lesina (nella cui giurisdizione nacque poi Tarranòve, il futuro Borgo di Poggio Imperiale), soffermandosi sulla loro acquisizione, amministrazione e gestione da parte del Principe Placido Imperiale, per passare successivamente alla trattazione del tema della Riforma Agraria, con i suoi aspetti sociali, demografici ed economici, fino all’apprezzo dei beni ereditari di Giulio II Imperiale.
L’autore, mi ha confidenzialmente informato che ‘bolle in pentola’ un altro lavoro, frutto di laboriose ricerche, alcune delle quali appena terminate presso l’Archivio di Napoli, altre da approfondire presso l’Archivio di Venezia, che riguarda uno studio sulla Colonia Albanese di Poggio Imperiale, già peraltro oggetto di analisi dell’autore stesso in altre circostanze.
Buona lettura dunque agli appassionati di questo genere letterario e a tutti coloro che animati dalla ‘speranza’, confidano in un clima di distensione, pace e rispetto reciproco.
Siamo nel 2025

Felice Anno Nuovo
Avviso
Con il nuovo Anno riprendono le pubblicazioni.
Buona lettura!
A zèlle e u zellùse a Tarranòve

Ogni tanto mi affiorano alla mente ricordi di un tempo che fu, trascorso da ragazzo nel mio paesello di nascita, nell’Alto Tavoliere della Puglia, come dei flashback che si inseriscono nella mia quotidianità per lasciar spazio alla rievocazione di avvenimenti del passato.
E ricordo che a Tarranòve (Poggio Imperiale, in terra di Capitanata), in situazioni ove si verificavano circostanze che presupponevano condizioni di competitività, come ad esempio nel gioco delle carte, ma anche in situazioni analoghe, si poneva soventemente in risalto qualche individuo (quasi una macchietta) che, in maniera loquace, prolissa e ciarliera, attribuiva al compagno di gioco (a coppie) l’incompetenza e lo scarso concentramento che pregiudicavano i risultati della partita oppure, all’avversario, il fatto di avere una fortuna smisurata e di vincere pur non sapendo giocare.
Si diceva, in gergo, che il tizio o il caio erano “zellùse” e l’atteggiamento posto in essere veniva denominato “a zèlle”,
Insomma “u zellùse” voleva vincere sempre, a tutti i costi, e non era capace di accettare sconfitte; in ogni circostanza la voleva vinta lui e pretendeva di avere sempre ragione su tutti e sopra ogni cosa. Si sentiva apparentemente superiore agli altri, ma era solitamente un soggetto mediocre ed irascibile che serbava rancore, odio e invidia verso il prossimo, senza neanche sforzarsi di nascondere pubblicamente le sue sciocche peculiarità: aveva la capacità di trasformare le competizioni in rivalità ed era particolarmente abile nell’approfittare di situazioni delicate per suscitare litigi altrui, mettendo i malcapitati gli uni contro gli altri.
Molto più in generale, “a zèlle” indicava quell’improvviso pretesto con cui una persona, nutrendo una sorta di antipatia o astio personali verso un altro, e non avendo motivi validi per aprire un contenzioso giustificabile e razionale, al fine di giustificare la dichiarazione di rivalità, si impuntava su qualche cavillo che cavalcava a dismisura in modo irragionevole.
Quel cavillo o pretesto, appunto, era “a zèlle” e, naturalmente “u zellùse” era il soggetto che con disinvoltura la praticava.
“U zellùse” manifestava la sua contrarietà in tutti i campi, cominciando dal nutrimento; infatti non gli andava bene mai niente di quello che era stato preparato per pranzo o per cena e anche per colazione o merenda.
Così dicasi per l’abbigliamento, vestiti, camicie, calze, scarpe; l’arredo della casa, i viaggi, le vacanze, l’ombrellone, gli spettacoli e quant’altro potesse venirgli mai proposto.
In lingua italiana potrebbe definirsi il “bastian contrario” della situazione, espressione idiomatica che indica colui che assume per partito preso le opinioni e gli atteggiamenti contrari a quelli della maggioranza.
E col tempo i due termini sono entrati nel linguaggio corrente dei Terranovesi, affievolendone il significato in maniera scherzosa e con toni divertenti soprattutto con i bambini capricciosi o in genere nelle contrattazioni.
Proviamo ora a vedere, per quanto possibile, la sua derivazione etimologica.
Nell’area del Cilento (1), “zella” indica più specificatamente la lite, l’ira, e “zelluso” è dunque l’attaccabrighe, la persona facile all’ira, pronto a “spaccare il capello in quattro” nella misurazione del torto che assume di aver subito, facile alla reazione e permaloso.
E, sulla loro origine (2), l’ipotesi più accreditata è quella di una derivazione dal greco “zelos” che tra i molteplici significati contempla anche quello di ira, rivalità, animosità; e da “zelos” viene anche la parola “gelosia”.
Nella storia di Tarranòve si rinviene una nutrita mescolanza di idiomi provenienti da varie località della Campania, della Puglia centrale e meridionale, della Basilicata (un tempo denominata Lucania) e della Calabria, nonché del Molise e dell’Abruzzo, ragione per cui i termini “zèlle” e “zellùse” potrebbero essere stati importati proprio dal Cilento, peraltro maggiormente influenzato dalla cultura greca, con il trasferimento in paese di famiglie provenienti da quei luoghi, che vennero a popolare questo nuovo insediamento (terra nuova: Tarranòve) in Capitanata voluto dal Principe Placido Imperiale, verso la metà del 1700.
Come ultima notazione, si evidenzia anche il fatto che a Tarranòve il termine “zèlle” – ma solo al plurale (i zèlle) – era sinonimo di “debiti”, ed è così che si diceva ad esempio: “Quillullà sta chine chine de zèlle” (quello là è pieno pieno di debiti) …ma questa è un’altra storia!
(1) Il Cilento è un’area territoriale della provincia di Salerno, nella Campania meridionale. Unitamente al Vallo di Diano, in epoca romana il Cilento era parte della Lucania; a decorrere dal medioevo appartenne al Principato Citeriore, definito anche “Lucania occidentale” ma facente capo a Salerno.
(2)L’interessante materiale di ricerca, riportato nell’articolo, è stato reperito sul sito internet Cilento Reporter l’Altra Informazione https://cilentoreporter.itAccademia della Vrenna al quale vanno i ringraziamenti di paginedipoggio.

La Russia ha invaso l’Ucraina: l’atrocità della guerra e la sofferenza umana che ne consegue

Dopo ben settantasette anni di tregua e di apparente pacifica convivenza tra i popoli europei, eccoci catapultati all’indietro nel tempo in un conflitto bellico e sull’orlo di sfociare nella Terza Guerra Mondiale.
La Russia ha militarmente invaso l’Ucraina, uno Stato sovrano con un Presidente ed un Parlamento democraticamente eletti dal popolo.
Carri armati, artiglieria pesante, bombardamenti aerei, palazzi sventrati, morti e feriti; e la coraggiosa resistenza degli ucraini.
Donne e bambini sfollati che scappano inermi verso il confine con la Polonia e la Romania, e cordoni umanitari per l’accoglienza da parte dei Paesi dell’Unione Europea che si prodigano in uno sforzo di grande solidarietà. Ed echeggiano, ancora una volta, parole come esodo, genocidio, olocausto.
Le immagini che passano attraverso gli schermi televisivi ci mostrano in tempo reale l’atrocità della guerra in atto e la sofferenza umana che ne consegue, lasciandoci profondamente sconvolti dallo sgomento e dall’orrore.
Solo nei film e nei vecchi documentari della Seconda Guerra Mondiale avevamo visto cose del genere.
Ed ora, strabiliati ed inorriditi, siamo tutti a domandarci del perché di tanta violenza e crudeltà nel Terzo Millennio.
Vladimir Putin, l’attuale Presidente della Federazione Russa, sembrerebbe – secondo alcuni osservatori internazionali – ossessionato dal confronto con il passato ed in questo senso vorrebbe riscrivere la Storia deviandone il corso, cancellando di fatto la caduta del Muro di Berlino, la fine del Comunismo e la debacle dell’Unione Sovietica: eventi che negli anni novanta del secolo scorso hanno segnato non solo la Storia, ma anche la Geografia politica di quella parte del Mondo.
Inoltre, la Russia di Putin sarebbe convinta (e pare anche la Cina di Xi Jinping) che l’Occidente sia in una fase di decadenza irreversibile e che sia necessario ridisegnare gli equilibri internazionali. Tuttavia, in questo particolare frangente Putin ha ottenuto il risultato opposto a quello sperato: pensava di dividerci e invece ha risvegliato davvero l’unità dell’Occidente, il nostro amor proprio e la volontà di difendere la democrazia. La coesione fra Europa e Stati Uniti ha sorpreso tutti, con la netta presa di posizione del Presidente USA Biden, dopo l’innegabile periodo di affievolimento dei rapporti della precedente amministrazione Trump. Le sanzioni economiche nei confronti della Russia messe in campo sono senza precedenti e nell’Unione Europea iniziano a parlare in termini di difesa con un esercito comune europeo e di una svolta energetica drastica per ridurre la dipendenza insostenibile di gas dalla Russia. Insomma, se si guarda in positivo, l’aggressione all’Ucraina è stata l’inizio di una presa di coscienza, perfino di una rinascita.
Ad ogni buon conto, per comprendere meglio la situazione forse un po’ di ripasso di Storia non farebbe male, a cominciare da Jalta.
La Conferenza di Vertice tenutosi nell’ultimo anno della Seconda Guerra Mondiale, dal 4 all’11 febbraio 1945, a Jalta, in Crimea, tra i leader delle tre potenze alleate, W. Churchill (Gran Bretagna), F.D. Roosevelt (Stati Uniti) e I. Stalin (Russia), per discutere, in base al principio delle cosiddette sfere d’influenza, i piani per la conclusione della guerra contro le potenze dell’Asse, l’occupazione e la spartizione della Germania e il successivo assetto dell’Europa. In particolare, furono previsti lo smembramento della Germania in Stati indipendenti e lo spostamento a Ovest delle frontiere della Polonia e si toccarono i problemi della frontiera italiana con l’Austria e la Jugoslavia.
Si diffuse così l’espressione “cortina di ferro”, tradotta dall’inglese iron curtain, dopo il discorso del premier inglese W. Churchill del marzo 1946, per indicare la separazione, territoriale e ideologica, esistente fra i paesi dell’Europa orientale e quelli dell’Europa occidentale.
Ed anche l’espressione “guerra fredda” per indicare la contrapposizione politica, ideologica e militare che venne a crearsi intorno al 1947, tra le due potenze principali emerse vincitrici dalla Seconda Guerra Mondiale: gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. Ben presto divenne più concreta la divisione dell’Europa in sfere di influenza e la formazione di blocchi internazionali tra loro ostili, denominati comunemente come Occidente (gli Stati Uniti e gli altri membri della NATO), Oriente (l’Unione Sovietica e i membri del Patto di Varsavia) e in seguito il terzo blocco dei Paesi non allineati.
Si trattò sostanzialmente della contrapposizione tra due grandi ideologie politico-economiche: la democrazia-capitalista da una parte e il socialismo reale-comunismo dall’altro.
Questa contrapposizione influenzò fortemente per decenni l’opinione pubblica mondiale ed ebbe il suo concreto emblema nella divisione della Germania, in Germania Ovest e Germania Est, con la città di Berlino divisa materialmente da un muro: il Muro di Berlino, figura retorica della cortina di ferro, volta a definire la netta distinzione territoriale e ideologica che si era venuta a creare tra i due blocchi socioeconomici dominanti. Un lungo sistema di recinzione in calcestruzzo armato, lungo 155 km e alto 3,6 metri, che circondò dal 1961 la parte occidentale della città di Berlino.
Furono anni difficili per le popolazioni orientali assoggettate all’influenza sovietica, nel mentre quelle occidentali progredivano notevolmente in economia e in democrazia. Il malcontento incalzava e i tentativi di rivolta venivano prontamente sedati dalle truppe sovietiche (dissidenti incarcerati, ecc.), finché i tempi maturarono per una svolta democratica.
Il 9 novembre 1989, dopo diverse settimane di disordini pubblici, il governo della Germania Est annunciò finalmente che le visite (ai parenti) in Germania Ovest e a Berlino Ovest sarebbero state permesse: molti cittadini della Germania Est si arrampicarono sul muro e lo superarono per raggiungere gli abitanti della Germania Ovest dall’altro lato in un’atmosfera festosa.
Cominciò così la demolizione del muro con picconi e a mani nude e durante le settimane successive piccole parti del muro furono portate via dalla folla e dai cercatori di souvenir.
In seguito furono usate attrezzature industriali per abbattere tutto quello che del muro era rimasto.
La caduta del Muro di Berlino aprì la strada per la riunificazione tedesca, che fu formalmente conclusa il 3 ottobre 1990.
Il fermento aveva indubbiamente contagiato anche gli altri Paesi orientali oltre cortina ed anche la stessa Russia, che cercò di correre ai ripari; ma il vento della democrazia soffiava oramai in maniera inarrestabile.
Il colpo di stato, fallito, che fece crollare l’Unione Sovietica fu tentato tra il 19 e il 21 agosto 1991, ben trent’anni fa, contro l’allora presidente Gorbaciov, ma non andò secondo i piani dei golpisti.
Il 18 agosto del 1991 Michail Gorbaciov, allora segretario generale del Partito Comunista sovietico e presidente dell’URSS, si trovava in vacanza con la famiglia a Foros, in Crimea. Nello stesso giorno, a Mosca, politici conservatori, vertici del KGB (i servizi segreti) e militari approfittarono della sua assenza e diedero inizio alle manovre di un colpo di stato progettato per conservare l’esistenza dell’Unione Sovietica, ma ottennero l’effetto contrario.
Da quando nel 1985 Gorbaciov era succeduto alla guida del Partito Comunista, si era imposto di cambiare le politiche e l’immagine dell’apparato statale. L’Unione Sovietica era finita in uno stato di immobilismo e da decenni era rappresentata da leader anziani e stanchi, come Leonid Brezhnev, Yuri Andropov e Konstantin Cernenko. A 53 anni, Gorbaciov divenne invece un valido interlocutore per l’Occidente e presentò un esteso piano di riforme per tentare di smuovere il paese.
Con i termini glasnost, perestrojka e uskorenie – diventati emblematici di quel periodo – Gorbaciov tentò di rendere l’Unione Sovietica più trasparente, moderna e competitiva: in sostanza cercava di avvicinarsi al mercato e alla comunità internazionale, come testimoniò l’importante accordo sul controllo dagli armamenti firmato al suo secondo anno in carica con gli Stati Uniti (Ronald Regan Presidente USA).
Il 18 agosto 1991, però, alla vigilia della firma di un trattato che avrebbe avvicinato l’istituzione di una Comunità di stati sovietici indipendenti, meno centralizzata rispetto al regime allora esistente, Gorbaciov venne isolato con la famiglia nella sua dacia di Foros. La residenza fu tagliata fuori dalle comunicazioni e i golpisti ne presero il controllo: chiesero a Gorbaciov di dichiarare lo stato di emergenza e di dimettersi, ma egli si rifiutò.
I carri armati usati per cercare di occupare militarmente Mosca vennero però letteralmente fermati da migliaia di persone scese in strada per bloccarli. Ci furono manifestazioni anche in altre grandi città russe, che i golpisti non vollero bloccare per timore delle pesanti conseguenze che gli interventi contro la popolazione avrebbero potuto provocare. Con Gorbaciov isolato in Crimea, chi sfruttò il momento per ottenere consensi fu Boris Eltsin, all’epoca Presidente della Repubblica Russa.
Eltsin e Gorbaciov erano avversari. Secondo il primo, l’economia di quegli anni era sempre più in crisi, le riforme non avevano portato nessun tipo di sollievo, e anzi, avevano peggiorato i problemi finanziari e la questione delle autonomie degli stati sovietici. Gorbaciov invece non si fidava di Eltsin, e successivamente si pentì di non averlo allontanato per tempo dai suoi incarichi.
Il colpo di stato sorprese anche lo stesso Eltsin, che però il 19 agosto si riunì con i suoi collaboratori e scrisse una dichiarazione per condannare il colpo di stato “anticostituzionale e reazionario” e con la quale invitava l’esercito a disertare e i cittadini a organizzarsi in uno sciopero generale. Raggiunse successivamente il Parlamento di Mosca dalla sua residenza fuori città, e una volta arrivato decise di uscire in piazza: una volta fuori, con grande preoccupazione delle sue guardie del corpo, saltò su un carro armato e si mise a leggere la dichiarazione. In quel momento in piazza c’erano 30mila persone e iniziarono ad applaudire. I flash delle macchine fotografiche iniziarono a lampeggiare. Il giorno dopo la foto di Eltsin sul carro armato era sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo: Eltsin e il popolo russo avevano vinto.
Gorbaciov tornò a Mosca nella notte tra il 21 e il 22 agosto. Il colpo di stato era fallito ma aveva in qualche modo accelerato la disgregazione dell’Unione Sovietica, visti i risultati. Gli stati baltici avevano già dichiarato la propria indipendenza e Eltsin, con il favore del momento, spingeva per l’istituzione di una Federazione russa indipendente. Nelle settimane successive il Parlamento di Mosca (la Duma di Stato) abolì il Partito Comunista.
L’8 dicembre dello stesso anno Russia, Ucraina e Bielorussia si riunirono in segreto senza Gorbaciov in una foresta al confine tra Bielorussia e Polonia per pianificare la disgregazione dell’Unione Sovietica. Pochi giorni dopo, il 26 dicembre, Eltsin e i capi di stato di tutte le altre Repubbliche sovietiche si riunirono ad Almaty, in Kazakistan, per completare la separazione, sancendo di fatto la fine dell’URSS. Gorbaciov, che il 24 agosto si era già dimesso da segretario del Partito Comunista, si dimise anche da presidente dell’Unione Sovietica, di cui fu l’ottavo e ultimo leader.
Il presidente Boris Eltsin ha poi rimosso il Capo del Governo in carica Sergej Stepashin nominando Vladimir Putin nuovo premier e, durante il messaggio televisivo alla nazione, tenuto in occasione del terzo anniversario del suo secondo insediamento, ha indicato lo stesso Putin come suo candidato alle elezioni presidenziali dell’anno successivo.
Nel frattempo, gli Stati legati all’ex Unione Sovietica dal Patto di Varsavia hanno chiesto di entrare a far parte dell’Unione Europea e della Nato (Alleanza Atlantica), compresi gli Stati dell’ex Jugoslavia, dopo i cruenti eventi bellici – seguiti alla morte del Maresciallo Tito – che hanno portato all’attuale assetto territoriale e politico. Alcuni di essi sono già entrati e per altri le procedure sono ancora in corso per via della formale verifica del possesso dei requisiti richiesti, come per l’Ucraina.
Inevitabilmente, l’espansione a Est dell’UE e soprattutto della Nato è stata ed è tuttora una fonte di preoccupazione per la Russia, che – a differenza dei tempi della guerra fredda – si trova ora a confinare direttamente con paesi legati a un’alleanza militare (la NATO) nata proprio per contrapporsi a Mosca; e l’Ucraina, guarda caso, è uno degli Stati cuscinetto tra la Russia e i Paesi dell’UE che aderiscono alla NATO.
La Russia è passata quindi alle vie di fatto, tant’è che prima dell’Ucraina ha occupato la Cecenia, la Georgia, la Crimea e già dal 2014 appoggia i movimenti separatisti degli ucraini/russofoni del Donbass che si sono autoproclamati Repubbliche popolari autonome del Donetsk e del Luhansk, che Putin ha naturalmente già riconosciuto (un teatro di guerra civile che dal 2014 ad oggi ha fatto 14mila morti).
E vi è anche il sospetto che Putin non voglia fermarsi all’Ucraina, ma che pensi anche alla riconquista delle Repubbliche Baltiche ed anche degli Stati dell’ex Jugoslavia.
E pensare che a cominciare da Gorbaciov e poi con Eltsin, fino al Putin di qualche anno fa, i rapporti con i Paesi occidentali avevano assunto un clima di distensione e di grande collaborazione, con la presenza della Russia nel G7 (Il Gruppo dei 7 – abbreviato in G7 – che riunisce i Capi di Stato e di Governo delle 7 nazioni più industrializzate del mondo. Ne fanno parte: Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito, Stati Uniti. Nella sua forma allargata alla Russia, il gruppo prendeva il nome di G8), e nel G20 (Il Gruppo dei 20 – G20 – che è un forum creato nel 1999 dopo una serie di crisi finanziarie, allo scopo di favorire il dialogo e la concertazione tra paesi industrializzati e paesi in via di sviluppo. Ne fanno parte: Arabia Saudita, Argentina, Australia, Brasile, Canada, Cina, Francia, Germania, Giappone, India, Indonesia, Italia, Messico, Regno Unito, Russia [ora non più], Stati Uniti, Sud Africa, Sud Corea, Turchia, Unione Europea). I rappresentanti dei Paesi membri sono i Ministri delle Finanze e i direttori o governatori delle banche centrali).
Al momento, nonostante i combattimenti siano ancora in corso, continuano le trattative tra la Russia e l’Ucraina per la ricerca di una via d’uscita onorevole per entrambe le parti in conflitto, con gli incessanti appelli al cessate il fuoco da parte di importanti autorità religiose, della politica e della società civile di tutto il mondo.
L’Italia ripudia la guerra!
Articolo 11 della nostra Costituzione Italiana:
“L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.
Per la guerra in Ucraina, abbiamo condiviso e sottoscritto le Sanzioni inflitte alla Russia e, d’intesa con gli altri Stati, stiamo sostenendo il popolo ucraino con aiuti di natura economica e con equipaggiamenti militari per la loro difesa in armi; partecipiamo inoltre alla costituzione e realizzazione di cordoni umanitari per l’accoglienza e l’inserimento nel nostro Paese dei rifugiati civili che scappano dalla guerra, con uno spirito di solidarietà esemplare.
Confidiamo nel buon senso dei popoli in guerra e auspichiamo la pace di tutti i popoli della terra.

Don Tonino Bello Venerabile

Ieri sera, sabato 15 gennaio 2022, alle ore 18, nella Cattedrale di Molfetta, nel corso della Messa solenne celebrata dal cardinale Marcello Semeraro, prefetto della Congregazione delle cause dei santi della Santa Sede, è stata data formale lettura del decreto di venerabilità di don Tonino Bello.
Evviva: ancora un figlio della terra pugliese agli onori degli altari … in cammino verso le successive tappe per divenire Beato e, ci auguriamo di cuore, presto anche Santo.
Ho assistito con molta devozione alla straordinaria ed esaltante cerimonia religiosa in diretta televisiva di Tele Padre Pio, non solo come corregionale ma soprattutto per reverenziale rispetto verso un nostro contemporaneo, un sacerdote, un vescovo che si è distinto durante la propria vita terrena per le sue doti di eccezionale virtù, in un’epoca complicata e difficile come questa.
Antonio Bello, meglio conosciuto come don Tonino è nato ad Alessano (Lecce) il 18 marzo 1935 ed è morto a Molfetta il 20 aprile 1993.
Figlio di una famiglia del Salento, trascorse l’infanzia in Alessano in provincia di Lecce, un paese prevalentemente a economia agricola.
Dopo gli studi presso i seminari di Ugento e di Molfetta, don Tonino venne ordinato presbitero l’8 dicembre 1957 e incardinato nella diocesi di Ugento-Santa Maria di Leuca. Due anni dopo conseguì la licenza in Sacra Teologia presso la Facoltà teologica dell’Italia settentrionale a Venegono Inferiore e nel 1965 discusse presso la Pontificia Universityà Lateranense la tesi dottorale intitolata I congressi eucaristici e i loro significati teologici e pastorali.
Nel frattempo, gli era stata affidata la formazione dei giovani presso il seminario diocesano di Ugento, del quale fu per 22 anni vice-rettore. Dal 1969 fu anche assistente dell’Azione Cattolica e quindi vicario episcopalee per la pastorale diocesana.
Nel 1978 il vescovo Michele Mincuzzi lo nominò amministratore della parrocchia del Sacro Cuore di Ugento, e l’anno successivo parroco della Chiesa Matrice di Tricase. Qui avrebbe mostrato una particolare attenzione nei confronti degli indigenti, sia con l’istituzione della Caritass sia con la promozione di un osservatorio delle povertà.
Il 10 agosto 1982 fu nominato vescovo delle diocesi di Molfetta, Giovinazzo e Terlizzi e, il 30 settembre dello stesso anno, vescovo della diocesi di Ruvo. Ricevette l’ordinazione episcopale il 30 ottobre 1982 dalle mani di monsignor Michele Minguzzi, arcivescovo di Lecce e già vescovo di Ugento-Santa Maria di Leuca, co-consacranti il vescovo Aldo Garzia, che aveva lasciato pochi mesi prima la cattedra di Molfetta, Giovinazzo e Terlizzi, e l’arcivescovo Mario Migliettaa, della diocesi di Ugento-Santa Maria di Leuca.
Sin dagli esordi, il ministero episcopale fu caratterizzato dalla rinuncia a quelli che considerava segni di potere (per questa ragione si faceva chiamare semplicemente don Tonino) e da una costante attenzione agli ultimi: promosse la costituzione di gruppi Caritas in tutte le parrocchie della diocesi, fondò una comunità per la cura delle tossicodipendenzee, lasciò sempre aperti gli uffici dell’episcopio per chiunque volesse parlargli e spesso anche per i bisognosi che chiedevano di passarvi la notte. Sua la definizione di “Chiesa del grembiule” per indicare la necessità di farsi umili e contemporaneamente agire sulle cause dell’emarginazione.
Fu terziario francescano.
Nel 1985 venne indicato dalla presidenza della Conferenza Episcopale Italiana a succedere a monsignor Luigi Bettazzi, vescovo di Ivrea, nel ruolo di guida di Pax Christi, il movimento cattolico internazionale per la pacee. In questa veste si ricordano diversi duri interventi: tra i più significativi quelli contro il potenziamento dei poli militari di Crotone e Gioia del Colle, e contro l’intervento bellico nella Guerra del Golfoo, quando manifestò un’opposizione così radicale da attirarsi l’accusa di istigare alla diserzione.
A seguito dell’unificazione delle diocesi di Molfetta, Giovinazzo, Terlizzi e Ruvo, disposta dalla Congregazione per i Vescovi il 30 settembre 1986, viene nominato primo vescovo della nuovaa circoscrizione ecclesiastica pugliese.
Nel settembre 1990 fondò a Molfetta, coadiuvato dal movimento Pax Christi, la rivista mensile Mosaico di Pacee.
Tra il 1990 e il 1992 ha scritto alcuni articoli sul quotidiano il manifesto.
Benché già operato di tumore allo stomaco, il 7 dicembre 1992 partì insieme a circa cinquecento volontari da Ancona verso la costa dalmata dalla quale iniziò una marcia a piedi che lo avrebbe condotto dentro la città di Sarajevo, da diversi mesi sotto assedio serbo a causa della guerra civile. L’arrivo nella città assediata, tenuta sotto tiro da cecchinii serbi che potevano rappresentare un pericolo per i manifestanti, fu caratterizzato da maltempo e nebbia. Don Tonino parlò di “nebbia della Madonna” (celebrata, appunto, in data 8 dicembre).
Morì a Molfetta il 20 aprile 1993, e l’anno successivo gli fu conferito il Premio Nazionale Cultura della Pace alla memoriaa.
Il 27 novembre 2007 la Congregazione delle cause dei santi ne ha avviato il processo di beatificazione. Il 30 aprile 2010 si è tenuta la prima seduta pubblica nella cattedrale di Molfettaa alla presenza di autorità religiose e civili.
Il 25 aprile 2014 il presidente della CEI Angelo Bagnasco ha inaugurato ad Alessanoo la “Casa della Convivialità” a lui dedicata.
Il 18 marzo 2015 i frati minori cappuccini, nel convento di Giovinazzoo, in provincia di Bari, hanno inaugurato, alla presenza di autorità civili e religiose e del fratello di don Tonino, Marcello, una statua raffigurante don Tonino.
Il 20 aprile 2018 nel giorno del suo 25º anniversario di morte, papa Francesco si è recato alla sua tomba per poi celebrare a Molfetta una Messa.

Il 25 novembre 2021 papa Francesco ha autorizzato la promulgazione del decreto sulle virtù eroiche; è diventato così Venerabile.
Ecco, qui di seguito, il commosso ricordo del presidente della Fondazione Giancarlo Piccinni (Avvenire del 15 gennaio 2022:
”Ha fatto camminare Gesù nelle strade delle nostre città.
Venerabile oggi, ma da sempre venerato. Don Tonino mi emoziona, e non solo oggi, per quello che stiamo vivendo. Mi emozionano i ricordi, nitidi, di un passato condiviso, mi emoziona la prospettiva di un futuro, gravido di attese. Mi emoziona anche solo pronunciare il suo nome. La Chiesa oggi e tutti fedeli aspettano il riconoscimento di un miracolo per la proclamazione della beatificazione e poi della santità. Chi lo ha conosciuto sa che lui stesso è stato un miracolo!
Con Don Tonino Gesù di Nazaret è passato per le nostre strade, per le nostre case, per le nostre chiese. Siamo stati generati alla fede: per questo lo abbiamo sentito e lo sentiamo nostro padre. Siamo stati rapiti dalle sue parole, ma anche dai suoi silenzi. Perché anche nel silenzio ci ha parlato. Il silenzio è la lingua di Dio e delle persone sagge e don Tonino, come tutti i santi, ha profondamente amato il silenzio perché il silenzio dona uno sguardo nuovo su tutte le cose. Il silenzio genera sapienza. Ma ci mancano anche le sue parole! A scuola, in piazza, nei convegni, ma soprattutto in chiesa: qui raggiungevano significati altissimi perché parlare in un quadro liturgico non ha lo stesso valore che parlare in un altro contesto: «È collocarsi in un luogo dove affluiscono i silenziosi apporti sapienziali dell’assemblea, che in quel momento non è un pubblico, è un soggetto attivo e creativo».
Gli apporti sapienziali dell’assemblea, del popolo, del suo popolo, sono stati sempre preziosi per l’amato pastore. «Grazie Chiesa di Alessano, che mi hai fatto entrare nell’anima il senso del mistero con la tua religiosità popolare», così disse nella sua prima omelia da vescovo. Per don Tonino il popolo è «soggetto di riflessione teologica» e il rapporto tra i saperi del popolo e quelli dei teologi non deve essere unidirezionale, devono invece necessariamente integrarsi. Ognuno di questi saperi ha una sua funzione insostituibile perché specifici, diversi, ne aveva tanta consapevolezza don Tonino che volle ed attuò una pastorale che non solo era per il popolo, ma soprattutto partiva dal popolo.
Quella del popolo è stata sempre una categoria privilegiata per don Tonino e all’interno di essa in particolare i poveri: per la loro fragilità, per la loro universalità, per la loro naturale appartenenza al Vangelo. Don Tonino ha amato il popolo e i poveri al punto tale da superare ogni barriera sino ad ospitarli prima nel suo cuore poi anche nella sua casa. L’ospitalità non è stata vissuta come un rimedio da offrire per risolvere un’emergenza sociale ma come una forma di elaborazione della teologia richiesta dai segni dei tempi che viviamo, una categoria eucaristica ed ermeneutica. Nessuno è stato straniero ai suoi occhi! Aveva intuito la centralità di questo problema, prima che altri affermassero che «il giorno in cui nello straniero si riconoscerà un ospite, allora qualcosa sarà mutato nel mondo», don Tonino aveva già con i fatti superato l’idea dello straniero e invitato il suo popolo a passare dalla ostilità alla ospitalità!
Forte è il fascino che questo pastore ha esercitato ed esercita ancora oggi nella Chiesa e nel mondo. Oggi celebriamo la sua venerabilità: il popolo lo ha sempre venerato! Non solo nella sua terra, ma anche e soprattutto lontano dalla sua terra. Infatti non possiamo dimenticare la sua appartenenza e la sua anima salentina ma è giusto al tempo stesso sottolineare la portata universale del suo messaggio, al punto tale che se ci chiedessimo a chi appartiene oggi il profeta dovremmo dire: a Dio e a tutti!”.
Alla imponente cerimonia di ieri sera nella diocesi di Molfetta-Ruvo-Giovinazzo-Terlizzi è seguita oggi alle ore 9,30 la celebrazione di una Messa solenne nella chiesa collegiata Santissimo Salvatore ad Alessano, paese natale di don Tonino Bello, presieduta dallo stesso cardinale Marcello Semeraro ed in serata, alle ore 17,30 sarà il vescovo di Ugento-Santa Maria di Leuca, Vito Angiuli a presiedere la Messa celebrata in Cattedrale a Ugento.

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